08 agosto, 2006

Una domenica sul Mar Rosso




Non si tratta ovviamente di Sharm es-Sheikh bensì di un’altra località molto meno famosa di nome Ain Sokhna. Si trova a circa 140 km di distanza dal Cairo (mentre Sharm è ad almeno 600 km) ed è raggiungibile tramite un’autostrada nuova e fiammante.
In tutto sono due ore.
Mezz’ora per l’attraversamento della metropoli e 1 e ½ per raggiungere la costa.
Partiamo in otto con due macchine. Alla guida Don Abdu, giovane prete cattolico egiziano, e Don Ashraf (altro sacerdote).
Salgo nella macchina di Don Abdu. E subito mi rendo conto di aver fatto una scelta imprudente.
Appena infilate le cinture di una vecchia 132, il Don ci chiede di recitare coralmente un’Ave Maria.
Io la recito con tutto il cuore anche perché Don Abdu non è nuovo a esibire saggi di guida sportiva suicida. Ed infatti, uscendo dall’Istituto a tutto gas, Don Abdu si “brucia” subito il bonus dell’Ave Maria tagliando di brutto la strada a un microbus che sopravveniva da destra. Imprecazioni e clacson. Ma è tutto nella normalità.
Raccomandazioni da parte mia e di Licia di andare più piano: L’Ave Maria potevamo giocarcela su punti più “delicati”, aggiungo io; che so, la tangenziale a otto corsie… Don Abdu ride.
Raggiungiamo la periferia. Tutta la fascia perimetrale della citta è percorsa da un’autostrada, la Ring Road, che lambisce ora quartieri di palazzi carini e pretenziosi, ora squallidi tuguri a più piani di mattoni rossi e tetti piatti ricolmi di macerie.

L’Egitto, al di fuori della strettissima fascia attorno al Nilo, è un grande deserto.
Solo che il deserto non lo si può intuire rimanendo all’interno della città perché si è sempre in una foresta di palazzoni.
Solo quando si esce la vista dell’ambiente esterno è impressionante. Il paesaggio desolato circonda il nucleo urbano. La città è come se finisse di colpo. In avanti a continuare è solo la strada; un nastro nero che si stende sopra un mare giallo immobile e luminosissimo.
Don Abdu e Don Michum mi indicano alcuni “esperimenti” di urbanistica. Nuovi quartieri satellite (palazzoni a non finire e nulla più) vengono costruiti fuori dalla metropoli.
Si cerca di dare un respiro alla città, di decongestionarla.
Dubito che ci riusciranno mai. Sembra quasi che gli Egiziani anelino il caos e la compenetrazione di quanti più esseri umani possibile.
Arrivati all’autostrada che porta diritti al mare, ci si para di fronte un superbo casello autostradale in cemento armato della IV dinastia. Capitelli, sacre raffigurazioni faraoniche, palme finte.

Un campionario del cattivo gusto che sinceramente, almeno in un struttura urbana, non mi sarei aspettato.
A metà tragitto Licia, intravedendo la sagoma di un autogrill chiede di fermarsi.
Io penso tra e me e me… “troppo tardi!”, poiché andiamo a 130 e la corsia di decelerazione per entrare al grill è già alla nostra destra. Dovremo aspettare il prossimo?
No! Perché mai aspettare, se possiamo fermarci qui?
In fondo si tratta solamente di
1) inchiodare a 130 km l’ora
2) girare bruscamente le ruote a destra riponendo un’eccessiva fiducia nella stabilità del mezzo.
3) il tutto su una vecchia 132 Fiat (di merda) di fabbricazione egiziana, con gomme (di merda) e sospensioni molto dubbie (fors’anche dello stesso materiale).
4) La macchina comincerà violemente a derapare sull’asfalto sabbioso per almeno 50 metri con grande stridio delle gomme suddette. L’equipaggio intanto si attaccherà a qualunque maniglia disponibile imprecando in un oscuro dialetto yemenita.
Quel cordolo di cemento armato sulla sinistra? Cosucce! Quella scarpata sulla destra?
Le gomme hanno tenuto!
Di cosa preoccuparsi? In fondo abbiamo solo rischiato di finire fuori strada o di schiantarci su un muro di cemento.

Mentre Licia va in bagno offro un caffè a Don Abdu: “Itnin Ahwa turki mazbut!” - due caffe alla turca “mazbut”. Mazbut vuol dire mediamente zuccherato. Tanto che se uno, in Egitto, chiedesse in un bar: “mi dà lo zucchero che ci penso io!” scoppierebbe una mezza rivoluzione.
Esistono molte parole che descrivono minuziosamente la gradazione zuccherina del caffè.
Ma lo zucchero lo mettono loro.
Ripartiamo e in breve arriviamo sulla strada costiera che va verso Sud.
La strada è bella. Mi ricorda la litoranea ligure o meglio la statale Ionica in Calabria dal momento che il paesaggio è completamente desertico, privo com’è di anche solo un filo d’erba o di alberi.
La strada è una serpentina tra il mare e una catena costiera di colline montagnose.
Rocce e sabbia.
Penso che in due giorni di viaggio continuato verso Sud arriverei in Sudan!
Ecco la nostra spiaggia.
I Don accompagnatori hanno optato per una struttura privata a pagamento. 50 lire egiziane (meno di 7 euro) a testa già sono un filtro notevole per la maggior parte degli egiziani. E’ un grande stabilimento recintato. Noleggiamo una squallida baracchetta in plastica. Dentro c’è un lettino e un bagnetto. L’igiene è un sogno lontano però la baracchetta dispone di aria condizionata a temperatura polare!
Solo in questo tipo di resort gli occidentali possono bagnarsi o stare in spiaggia senza rischiare tanti problemi. Altrove sarebbe un tantino complicato mettersi chiappe all’aria.
Voi donne, nelle spiagge libere egiziane sareste così matte da indossare un Costume da bagno??
Ah, ah, ah, ah!
Giulia e Laura mi hanno raccontato che in altri posti le persone sono state invitate a rivestirsi. Nelle spiagge libere e popolari gli uomini, talvolta, hanno costumi lunghi come da noi negli anni ’20 o giù di lì. Le proibizioni sono però più marcate per le donne.
Entriamo in acqua.
E’ caldissima! Una goduria.
Il mare è bellissimo e sbavo letteralmente all’idea che tornerò regolarmente qui a fare il bagno anche fino a Novembre.
C’è la barriera corallina, centinaia di pesci colorati. Don Michum mi spiega come fare per avvicinarli e vederli meglio. Basta un pezzetto di pane e subito ci sarebbe una cena di pesce per 20 persone. Poi cavallucci marini, conchiglioni più o meno giganti.
Don Bernardo mi racconta di aver cavalcato una tartaruga di mezzo metro e di aver avvicinato, con relativa facilità anche i Delfini.
Un sogno.
Un’altra cosa che abbonda sono le meduse.
Piccole e infide, non appena le scorgiamo partiamo come siluri impazziti per il timore di essere punti e urticati.
Don Michum, nel suo proto- italiano del XII secolo, molto cantato e privo di connessioni grammaticali, mi spiega come distinguere le meduse buone da quelle urticanti.
Io non ci capisco niente. Poi me ne mette una in mano.
Mi fa un discorso sui colori. Quelle azzurre e quelle bianche… “quelle azzurre sono innocue?” – chiedo io incautamente – sì certo, ma bisogna che siano piccole; se sono azzurre e grandi….
Il Don egiziano mi ripete tutto da capo. Adesso ho capito!
Avanzo verso riva. Sono stato tanto in acqua e sono stanchetto.
Davanti a me c’è un’altra medusetta di colore azzurro elettrico argenteo.
E’ bellissima e delicata.
La tiri fuori dall’acqua solo per un attimo, per vederla meglio. Non oserei mai fare come tanti che le lanciano a riva. Appena la rimetti dentro… subito ricomincia a muoversi con una delicatezza commovente… sembra che danzi con i suoni del mare.
Strane creature.

A metà giornata il “resort” mette a disposizione un ristorante dove mangiamo molto bene.
E’ interessantissimo vedere la commistione di famigliole che si trovano in questo luogo.
Ci sono nuclei familiari “evoluti” all’Europea. Lei è ossigenata e truccatissima, un po’ volgare. Marito ciccione-baffonero un po’ annoiato.
La famiglia “prolet” egiziana invece è molto più caratteristica. Bambini, numerosi, ronzanti attorno alla mamma invelata; poi ci sono i figli più grandi, adolescenti maschi spesso con look abbastanza tamarro, capello impomatato e camiciole giovanili alla moda; le sorelle maggiori sono invelate come la mamma. Entrambe le figliolanze, sia maschili che femminili dispongono in ugual misura di sobri cellulari grandi come racchette da ping ping con sobrie sonerie mediorientali di gusto assai discutibile.

Ci fermiamo per salutare un amico che ha passato la domenica nella spiaggia vicina. Quella libera, dove vigono le ferree regole della pudica morale islamica.
Intravedo delle bagnanti vestite da capo a piedi. In acqua con velo e i jeans!
Fa comunque meno impressione il bagnante-burkizzato: se non altro sta al fresco.
Fa molta più impressione (e fa molto pensare) quella tizia che “prende il sole” sulla spiaggia completamente fasciata di un lububre vestito nero. Però ha un cappello in testa.

Ecco a mio parere la vittoria dell’Occidente e dei suoi costumi – cioè la prova matematica che il “peggio” del nostro mondo si sta insinuando in ogni angolo del pianeta - si misura proprio a partire da questa immagine che ne è un po’ il simbolo: la donna in-burkata che prende il sole.
Se già è inquietante chiedersi cosa spinga milioni di persone (in tutto il nostro mondo) a stare ore e ore a prendere il sole sulle spiagge; vittoria dell’assurdo, dal momento che il nostro culto del salutismo edonistico fa a botte con i danni per la salute, ormai evidenti e conclamati, dell’eccessiva esposizione solare; a maggior ragione inquietante (e surreale) è chiedersi cosa spinga una donna stare sotto il sole COMPLETAMENTE occultata da un lugubre velo nero!
Che senso ha?
Lo “stare in spiaggia” è una cosa che si è affermata da noi a partire dagli anni ’20. Dicono (e probabilmente è vero) che la cosa si impose, come fatto sociale e di costume, quando la mitica Coco Chanel apparve in società con la pelle abbronzata. Cosa disdicevole e ancora molto proletaria a quei tempi. Da quel momento in poi il culto dello “spiaggismo” dilagò favorito anche da una nuova società industriale in cui operai e impiegati disponevano, per la prima volta, di tempo libero e di ferie. Da noi i ceti più ricchi cominciarono a frequentare i “bagni estivi”, sfidando lo stupore della maggioranza che ancora non capiva il senso di questo inutile rito.
Quando poi il culto divenne di massa, allora nessuno si stupì più di una cosa così strana come lo stare immobili sotto il sole. Anzi oggi passa per snob chi la pensa al contrario.

Alle 17 ripartiamo verso la metropoli.
Prima di partire c’è un attimo di parapiglia.
Arrivano i delfini.
Sono almeno 9 o 10 e sono vicinissimi alla riva. Si direbbe che si siano avvicinati per guardare meglio quegli strani animali bipedi vicino alla riva.
Nel capanno sotto il quale ci troviamo regna un’eccitazione generale.
E’ un coro di…. “HAI VISTO? CHE TI DICEVO? A QUEST’ORA SI VEDONO SEMPRE, CHE SPETTACOLO! CHE ANIMALI AFFASCINANTI I DELFINI …COSI’ VICINI !!”.

I delfini cominciano a sfilare via. Si immergono veloci per l’ultima volta e poi via chissà dove.
In cuor mio immagino che ogni delfino dica all’altro che gli nuota accanto:
“HAI VISTO? CHE TI DICEVO? A QUEST’ORA SI VEDONO SEMPRE, CHE SPETTACOLO! CHE ANIMALI AFFASCINANTI GLI UOMINI …COSI’ VICINI !!”.


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