02 febbraio, 2007

QUOTA 33

Immaginate di morire.
Anzi no. Immaginate di essere gia’ morti.
Dove vi trovate adesso?
Ovviamente in una tomba. Se siete stati fortunati da essere stati seppelliti, ovviamente.
La vostra vita è finita (…càpita a volte) e voi siete lì a spassarvela nel vostro loculo.
Nome? Cognome? Vita, morte miracoli? Una piccola foto?
Tz, Tz! Niente di tutto questo.
Amori, desideri, ricordi, volti, libri letti, giornate spensierate?
La vostra vita?
Niente!
L’unica cosa che, laconicamente, rimane di voi è questa:


IGNOTO IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO IGNOTO
IGNOTO IGNOTO IGNOTO

Ma perché, vi chiederete, dovrebbe rimanere di voi solo questo aggettivo - così glaciale - “ignoto” cioè una persona la cui identità è sconosciuta?
No di certo.
Diventare IGNOTI, è un “onore” riservato solo a chi è morto sui campi di battaglia e successivamente, sfortuna nella sfortuna, tutto ciò che rimane di lui è solo qualche frammento bruciacchiato e irriconoscibile.

Ho cominciato questo discorso perché mi trovo in un sacrario militare, un cimitero costruito per i caduti in una battaglia della seconda guerra mondiale. Una battaglia famosa.
La torre "medievale" del Sacrario



Precisamente mi trovo ad El Alamein a 100 km da Alessandria sulla costa mediterranea in direzione della Libia.
Il toponimo El Alamein significa “le due bandiere”, forse un riferimento al fatto che in questa zona c’erano due piccole alture (si parla di decine di metri di elevazione, non di più).
Mi sembra un nome azzeccatissimo per un luogo che ha visto fronteggiarsi in modo feroce due eserciti, due vessilli militari, due bandiere appunto.
La “Quota 33” che vedete nella foto, è il punto di massima avanzata dell’esercito italiano che sperava di sfondare le linee inglesi e permettere così al nostro Benito di entrare ad Alessandria sulla groppa di un cavallo bianco. Il liberatore dell’Egitto dal giogo inglese!


Ho l’impressione che la denominazione “quota 33” sia un’invenzione estetica.
Suona bene 33.
Dica 33 per favore e faccia un colpo di tosse.
Ve lo immaginate …Quota 26? Oppure …Quota 18? Naaaa! Banale.
Trentatre.
Gli anni di Cristo, a pensarci bene.

Torniamo al nostro muraglione marmoreo di ignoti.
Sarà per la nostra stupida vanità umana che ci fa pensare di contare qualcosa nell’economia dell’universo mentre da secoli tutte le religioni e le scienze non fanno che ripeterci che siamo polvere e che torneremo polvere; sarà sempre a causa di questa sciocca vanità che molti di noi sperano di essere qualcosa ancora dopo la morte (vedi il clamoroso caso del signor Cheope, che con la sua inutile e sciocca piramidona è il primo nella classifica di tutti i tempi)… però penso che a nessuno di noi andrebbe di finire così.
Ignoti.



Tutti aspiriamo alla nostra individualità, alla nostra unicità. Nessuno di noi vorrebbe essere un altro, ma solo noi stessi. E invece questi ragazzi sono stati privati anche del nome.
E’ quasi come se i soldati, usati da vivi per il cinismo di chi era al potere, vengano ancora usati anche da morti, come mattoni di carne, per edificare l’edificio della retorica nazionalista.
Lasciamo perdere, meglio.

Mancò la fortuna non il valore

Così recita un cippo marmoreo sulla strada costiera verso Alessandria a poche centinaia di metri dal sacrario militare.
Questa frase è diventata famosa per la sua sintetica semplicità. Elogia l’eroismo dei vinti (noi, gli italiani), ammette ma molto elegantemente omette di dire che siamo stati spazzati via dal fuoco nemico.
Mancò la fortuna non il valore.
E già!, come andò questa battaglia?
Noi, alleati dei tedeschi contri gli inglesi, appoggiati dalle loro truppe coloniali: australiani, nepalesi, ecc ecc.
Fu uno scontro impari. Le forze dell’esercito italo-tedesco erano di gran lunga inferiori; eppure i “nostri” mantennero la posizione per piu’ di una settimana e, dopo la resa, ottennero l’onore delle armi dagli inglesi.

Ci guardiamo attorno. Ci viene incontro un custode, molto anziano vestito con la tradizionale gallabeyya egiziana. Parla un buon italiano. E’ qui da decine d’anni e guida i turisti italiani e non solo che passano da queste parti.


Se uno legge qualcosa sui numerosissimi siti internet o su qualche libro, trova subito conferma del fatto che non potevano farcela.
Il rapporto di forze in campo era soverchiante e la tecnologia del regio esercito era ridicola rispetto a quella degli alleti.
Solo i tedeschi potevano competere. Noi no.
I carri del regio esercito erano lentissimi male equipaggiati.



Non disponevano di radio. Per manovrare in modo efficace e quindi necessitando di coordinamento tra di loro dovevano comunicare o con bandierine o uscendo dal carro esponendosi a chissà quali pericoli…
Come dicevo prima, la battaglia è passata alla storia perchè i soldati italiani stupirono i loro nemici per una tenacia impensabile.
I “nostri”, negli ultimi giorni, ormai stremati dalla mancanza di riforminenti, riuscirono ancora a ritardare l’avanzata impetuosa dei carri inglesi. In alcuni casi (documentati!) usarono molotov fatte con bottiglie di VINO e bombe anti-carro fatte con scatole di POMODORI.
Vino e pomodori contro i carriarmati!
Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessero avuto a disposizione anche delle pizze margherite!
Gli inglesi non l’avrebbero passata così liscia!
Italian Style.
A quanto pare fu proprio la mancanza di rifornimenti che fece collassare l’armata italo-tedesca, anzi, ad un certo punto i tedeschi se ne andarono e gli italiani rimasero soli a fronteggiare gli inglesi e il loro maggior alleato: il Deserto.
Ho letto che Rommel, (la “volpe del deserto”) umiliato dalla sconfitta (poiché capiva che non si era trattato di questione di strategia ma solo di logistica) disse del suo avversario Montgomery:
“Se solo potessimo combattere alla pari! Datemi il comando di 5 carri armati. A lui date lo stesso. E a entrambi la stessa quantità di benzina. Lasciateci soli nel deserto e poi vedremo chi è il migliore!”.
L’eroismo dei soldati italiani come ricorda questa lapide, stupì tutti, vera o falsa che sia l’attribuzione al generale tedesco.


Leggo un’altra piccola lapide.
Testimonianza di un gesto piccolo ma toccante.
Alcuni soldati italiani si arrendono ma nascondono il vessillo militare seppellendolo sotto la sabbia.
Non sia mai che cada nelle mani del nemico.
Tornano 10 anni dopo per recuperarlo.
La lapide appunto ricorda il recupero dello stendardo militare.


Che cosa affascina in questo tipo di storie?
Io la chiamo …”Nostalgia dell’eroismo”.
Nessuno di noi è, io credo, guerrafondaio o fanatico della violenza.
Eppure nasce un moto fortissimo di ammirazione per questi ragazzi.
Ovviamente la parola “eroismo” va usata con molta cautela.
Non voglio cadere nel tranello della retorica nazionalista.
Infatti i nostri soldati fecero quella battaglia per mille motivi.
Perché non avevano scelta (e non potevano scappare in mezzo al deserto)
Perché avevano un forte senso del dovere.
Perché forse alcuni di loro erano, perché no, dei fanatici.
Perché forse, pur avendo paura di morire, combattere era il miglior modo per guadagnarsi qualche possibilità di salvezza.
Però combatterono eroicamente..
L’eroismo è nel modo di affrontare e di vivere la sconfitta.
Quando Ettore saluta la moglie Andromaca e il figlioletto Astianatte sa che andrà a morire.
Achille, l’avversario che affronterà, è immortale.
Per questo ci commuove questo episodio: perché Ettore sa che perderà ma combatte ugualmente.
Impossibile che anche gli italiani non si rendessero conto che la disfatta era vicinissima.
Lo sapevano. Sono i numeri a parlare.
Del reparto Folgore che disponeva inizialmente di migliaia di uomini , ne sopravvissero forse un centinaio.

Continuo a camminare per i corridori del Sacrario.
Quanto marmo! Bianchissimo.
Saliamo su in cima alla torre, percorrendo i gradini di una scala assai metafisica.


Dall’alto vedo il panorama del deserto verso l’entroterra. Il fronte è il prolungamento immaginario del vialetto che arriva alla torre. Il fronte era lungo lungo decine di chilometri.
Il mare è alle mie spalle, a poche centinaia di metri; e meravigliosa è la visione del deserto che si apre alla vastità dell’acqua di color turchese. Due mari che si incontrano. Uno giallo e uno blu.
Torno in basso e vado ancora a dare un ultimo sguardo al Sacrario.
Poso ancora lo sguardo sul muro di IGNOTO e sui tanti altri che, invece, un nome ce l’hanno.
I vari “mario rossi” e “giovanni bianchi” si susseguono in un ordine più o meno alfabetico.
Sono tutte uguali queste lapidi e a ben vedere non c’è reale differenza tra “IGNOTO” e gli altri nomi.
A ben vedere siamo tutti indistintamente…UNO QUALUNQUE.
In fondo chi siamo? Dove andiamo? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai..
Dunque siamo IGNOTI anche a noi stessi.
Solo Dio ci conosce veramente come recita solennemente l’iscrizione sopra le nostre teste….



Posso solo immaginare il dolore e l’emozione di chi, nel corso degli anni è arrivato qui per vedere la tomba del proprio caro: mogli, fratelli, amici e compagni d’armi, sorelle, figli.
Questo posto ha raccolto per decine d’anni un dolore immenso e terribile. La disperazione di chi ha visto sparire all’improvviso un proprio caro senza che se ne sapesse più nulla. Come se fosse stato inghiottito dal deserto piuttosto che dall’assurdità di ciò che stava accadendo.
Però almeno in questo i Sacrari sono solenni. Aiutano un popolo intero a dare un senso e un significato ad un evento, la morte di ogni singolo uomo, avvenuto all’interno di una sconcertante tragedia collettiva: la guerra.

Sto per andarmene via.
Cerco anch’io un uomo.
Ci metto un po’ di tempo.
Non è facile. Le lapidi non sono in rigoroso ordine alfabetico ma seguo le indicazioni di mia mamma e alla fine lo trovo, in alto, in un corridoietto laterale.

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Salvatore Oliva
sottottotentente (medico)
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Ciao zio
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Chissà che tipo eri
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*** IN MEMORIAM SALVATORE OLIVA***
" TOTO' "
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24 ottobre, 2006

Ramadan Karim !




Il sacro mese del digiuno.

Ecco la foto di un cartellone pubblicitario che campeggia in questi giorni, cubitale, in tutti i viali che attraversano la metropoli.



Si vede una tipica confezione da detersivo per piatti, di nome “PRIL”; l’involucro di plastica ha una strana forma; inusuale almeno per noi, assolutissimamente familiare per tutti i musulmani.
Poi c’è una piccola falce lunare, una notte stellata e dei festoni simil-natalizi.
Di che cosa si tratta?
Perché la pubblicità di un banale detersivo per piatti adotta questo simbologia?
Sotto leggiamo (se sappiamo l’arabo!): “Wahshatna ya ramadan!” che si potrebbe tradurre con… “Avevamo nostalgia di te, Ramadan!”
E’ soprattutto la forma del flacone la cosa che dovrebbe incuriosire chi guarda questa foto.
Spiegherò dopo di che si tratta.

Torniamo adesso al titolo del post: Ramadan Karim!
Ramadan Karim si può tradurre con “un Ramadan generoso” ed è l’augurio più tipico che si fa da queste parti in questo periodo.
Sarebbe un po’ come dire… Buon Natale! anche se, ovviamente, qui si rizzerebbero le orecchie a tutti i musulmani a sentire questo blasfemo accostamento.
Beninteso i musulmani del Natale ne sanno ben poco; qualcuno forse sa che è la più importante festa cristiana.
Dicevo, il Ramadan (si pronuncia all’incirca Ramadòn) è la più importante festa islamica. Dura un mese intero ed è attesa dai, soprattutto dai bambini, ma anche dai grandi con un misto di eccitazione e di fervore religioso.
Nei trenta giorni i fedeli devono astenersi dal cibo e dalle bevande, dal fumo, dal sesso, dai pensieri cattivi… dall’alba fino al tramonto.
E’ un periodo di purificazione e di penitenza.
In tutto e per tutto ricorda il nostro periodo natalizio. Solo che qui non si usa fare regali come da noi. Le famiglie si riuniscono per la sacra ricorrenza, le pasticcerie sono piene di dolciumi; tutti sono o “dovrebbero” essere più buoni; nelle strade si respira un’aria particolare, e le case sono addobbate con festoni e luminarie.

Da dove trae origine questa ricorrenza?
Anticamente i musulmani dividevano l’anno in 12 mesi lunari. Ognuno con il suo nome complicato e impronunciabile. I mesi musulmani sono di 29 o 30 giorni per cui sono mediamente più corti dei nostri, i quali, beninteso, ormai di lunare non hanno più nulla se non, all’incirca, la durata.
L’anno musulmano (che comunque loro non usano affatto, ormai l’anno cristiano la fa da padrone!) è di soli 354 giorni, perché deriva dalla somma di 12 mesi lunari di 29 giorni: quindi è 11 giorni più breve rispetto a quello solare.
I mesi iniziano e finiscono ad ogni Luna nuova, cioè quando la luna con una falce sottilissima comincia a vedersi nel cielo notturno.
Cosa succede adottando questo sistema di conteggio del tempo?
Succede che i mesi si “muovono” lungo le stagioni! Perciò mentre per noi novembre, dicembre e gennaio sono mesi indissociabili con la stagione invernale, lo stesso non può dirsi del calendario musulmano. I mesi che lo compongono cadono in un punto dell’anno ma poi, l’anno successivo si ripresentano 11 giorni prima e poi ancora 11 giorni prima (cioè un terzo di mese) con il passare degli anni.
Cosi un qualunque mese in 36 anni fa tutto il giro delle stagioni, presentandosi in autunno, estate, primavera e poi inverno.
Sarebbe come dire che il mese di Dicembre, si spostasse anno dopo anno fino a diventare un mese estivo per poi ritornare 10 o 20 anni dopo ad essere invernale e così via…. Sono stato chiaro?
Il Ramadan non è che uno di questi mesi. Come se noi dicessimo.. che ne so… il mese di Aprile.

In più loro contano gli anni a partire da una data cruciale (per loro), cioè l’atto di fondazione da parte del profeta Maometto della religione islamica. Non ricordo l’anno… mi pare 632 dopo Cristo.
I musulmani si trovano adesso nell’anno 1427.
Nella foto sotto si vede in grande un calendario riportante la nostra data europea. Poi sotto l’anno 1723 dei cristiani copti d’egitto (cui prima o poi dedicherò un post); poi c’è l’anno l'anno musulmano ( Egira 1427); per ultima la datazione ebraica (anno 5767!).



Un’altra cosa interessante è che questo mese NON inizia non in modo “oggettivo” come saremmo abituati a pensare noi occidentali, e cioè quando astronomicamente la luna sorge all’orizzonte.
Naaaaaaaaa!
Troppo facile.
Banale. Troppo oggettivo.
Troppo occidentale!
Il mese lunare di Ramadan inizia quando qualcuno (non uno qualunque, ma una persona accreditata) VEDE ad occhio nudo questa benedetta falce lunare alzarsi nel cielo.
Il grande Muftì (sarebbe come dire il vescovo) non l’ha ancora vista perché ha la diarrea o perché quel giorno era nuvoloso? (cosa del resto rara in Egitto, le nuvole non la diarrea!)
Pazienza! Vuol dire che il mese non è ancora iniziato.
Se non l’ha vista Lui, niente da fare.
Allora l’inizio del Ramadan, per sicurezza, slitterà al giorno successivo o, se persiste l’impossibilità all’osservazione, due giorni dopo.

Come ho già detto il Ramadan è il mese più importante.
Il digiuno prescritto dalla religione islamica è e deve essere assoluto.
Non bevono, non fumano, no televisione, donne. Non possono neanche inghiottire la saliva! Così sputano per terra.
Il digiuno dura dalle prime luci dell’alba fino al tramonto; in genere va fatto precedere da un pasto leggero poco prima dell’alba, detto “suhur”, per poter iniziare la giornata e fare il pieno di energia prima della dura prova.
Il significato più importante dell’astensione sarebbe quello spirituale. Così, il digiuno fisico è solo un preludio al vero digiuno, quello dei sentimenti e dei pensieri impuri.
Durante il mese i fedeli devono assolutamente astenersi dal male in tutte le sue forme.
Rimane il fatto però che la cosa più provante è la fame e la sete cui sono sottoposti milioni di persone.
Provate a pensare.
Finchè la sacra ricorrenza cade in inverno tutto fila abbastanza liscio.
In inverno la temperatura e’ assai mite (non fa così freddo, non fa caldo).
Immaginate quando il Ramadan cade in piena estate.
Io c’ero quest’estate, la mia prima al Cairo, non dovevo digiunare (per fortuna), né astenermi dal bere liquidi. Eppure quando vedevo una bottiglia, mi ci abbarbicavo saldamente come un lichene e ne benevo il contenuto fino all’ultima molecola.
Nonostante le mie bevute da idrovora, avevo sempre sete.
Disumano allora, immaginare di lavorare in ufficio o nei campi come in fabbrica; andare a scuola con quel caldo e non poter neppure bere un sorso d’acqua! A peggiorare le cose basti pensare che d’estate il sole sorge prima e tramonta più tardi. L’arco diurno è molto più esteso che in inverno; il patimento deve essere notevole.
Quest’anno il Ramadan è caduto dal 24 settembre al 22 ottobre.
Allah è stato clemente, la temperatura è ormai decisamente confortevole e fa caldo solo nelle ore centrali della giornata.

Dopo questa prova il fedele rafforza la sua energia interiore.
L’uomo impara a tenere sotto controllo i suoi desideri fisici e volge la sua coscienza spirituale ad uno stato più elevato. Durante questo mese le porte del paradiso sarebbero un po’ più aperte del solito.
Un momento! Ma quando i musulmani possono (giornalmente) interrompere il digiuno?
Al tramonto!?
Ma quando tramonta il sole?
In città ci sono i palazzi, impossibile vedere l’orizzonte.
Niente paura. Su tutte le prime pagine dei giornali nazionali, come anche alla televisione, alla radio, al cinema, l’interruzione del digiuno è segnalata con dovizia e cura. Nella foto che allego vedete l’ora di fine e di inizio digiuno scritte con i numeri arabici. Si vede disegnata una piccola lanternina, sopra c’è una falce lunare e sulla destra dei numeri indicanti due orari: le 17,18, l’ora del tramonto in cui è possibile lanciarsi sul cibo; le 04,13 del mattino, il sorgere del sole cioè fine della pacchia e inizio delle nuove sofferenze.
Un momento! La lanternina….. mi ricorda la confezione del detersivo per piatti Pril!
Dopo sveleremo il mistero.



E’ il momento dell’ IFTAR, l’interruzione del digiuno. Bramato con ansia da milioni di persone che aspettano il colpo di cannone sparato dai militari sulla collina del Moqattam, proprio sopra la città.
E il segnale di via. Il sole è tramontato. Comincia il Neftar.
In arabo, il verbo…“Neftar” significa fare “l’Iftar tutti assieme.
Il momento più bello è mezz’ora prima dell’Iftar.
La città si svuota completamente.
Spettrale.
E, credetemi, se venite al Cairo e vedete il casino proteiforme nelle strade ininterrotto a qualunque ora del giorno e della notte; e a un certo punto invece, più niente, allora capirete il senso di quella parola: spettrale.
Non è mai così.
A volte di notte mi alzo per la pisciatina di prammatica.
Mentre mingo, canticchiando nella mia testa la nenia del muezzin di turno, non posso fare a meno di guardare dalla finestra la “Abdel Kader Taha”. La strada di fronte alla scuola è invasa da una coda ininterrotta di macchine come da noi le statali nell’ora di punta. Però, cazzarola, sono le 3 del mattino!

Torniamo a quel “ Ramadan Karim”. Generoso?
La penitenza del digiuno serve al fedele per capire le sofferenze della gente povera e bisognosa. Il povero non può mangiare, così il ricco, soffrendo gli stessi patimenti del povero, apre la sua coscienza alle esigenze dei bisognosi.
Il bravo devoto musulmano deve essere generoso. Generoso è colui che fa l’elemosina, e che condivide con i poveri tutti i suoi averi.
Così, se andate in giro in una città musulmana durante il mese di Ramadan, vedrete immense tavolate (lunghe anche decine di metri) dove si raccolgono soprattutto i poveri della città.
Al momento dell’Iftar viene servito un pasto in comune. Sopra i tavoli c’è sempre l’immancabile megafono con il muezzin della moschea più vicino che spara la sua preghiera a 120 decibel. Qualche minuto prima del tramonto sono tutti lì. Aspettano trepidanti con forchetta e coltello in mano e tovagliolo al collo, il segnale del via per abbuffarsi di cibo.
Chi ha fame e, sono molti in questa città, a giudicare dall’ampiezza e dall’ubiquità di queste tavolate (sono dappertutto), sopporta con pazienza il frastuono e si lancia come un piranha sulle pietanze. Dopo un quarto d’ora i tavoli sono già sgombri e tutti sono tornati a casa.



Anch’io sono stato invitato ad un Iftar.
La cosa era un po’ paradossale dal momento che eravamo in maggioranza cristiani. C’erano però anche due amici musulmani e la cena è stata organizzata proprio per loro, in segno di amicizia.
All’inizio si beve un beverone di acqua e datteri e frutta secca.
Quando si rompe il digiuno non si deve mangiare subito!
Io non avevo neppure fame. Erano le 6. Gli amici musulmani invece, arrazzati dal digiuno, si sono buttati, come cammelli ingrifiti sulla bevanda oleosa e scurastra.
L’aspetto in effetti non è invitante, una sorta di melassa lattiginosa (immaginate l’olio esausto della vostra macchina) nella quale sono in sospensione datteri e frutta secca; ma… è buonissimo! Veramente una leccornia. Non adatto però a chi non ama i dolci… dolcissimi.

Dicevo che la città respira un’atmosfera festaiola; ci sono le luminarie, e sono così identiche a quelle nostre natalizie che ti aspetteresti di vedere Babbo Natale spuntare sopra i minareti. Alla televisione fanno i film migliori e le famiglie si ritrovano per i pranzi in comune che diventano occasione di festa e allegria.
E già, Babbo Natale! L’albero di Natale!
Per noi europei sono questi ormai i simboli del Natale.
Gesù Bambino? Scomodo.
Meglio un albero laico e colorato. Tanti problemi in meno.
E poi provate a contare gli alberi, gli alberelli, gli alberoni giganti natalizi in una città occidentale. Sopravanzano e di molto i bambin Gesù.
Dunque l’abete è il vero simbolo del Natale.
E al Cairo?
Al Cairo e in tutti le nazioni islamiche c’è il Fanùs.
Il Fanùs è una lanterna che i fedeli appendono, accesa, fuori dai terrazzi, alle finestre, davanti ai negozi, dovunque.
E’ l’analogo perfetto del nostro albero di Natale.
Entrambi “rendono l’idea” proprio di notte quando sono illuminati.
Qual è il significato del Fanus?
Boh. Ho letto su internet decine di interpretazioni di questo simpatico simbolo.
In verità nessuno sa cosa significhi veramente.
Del resto chi di voi sa cosa rappresenti l’albero di Natale?



In questo periodo ci sono negozi specializzati solo in questo articolo. Come da noi ci sono gli abeti sono veri, o quelli in plastica in mille fatture e misure; allo stesso modo i Fawanis (plurale di fanùs) si vendono a partire da quelli colossali di qualche metro fino a quelli soprammobile.
Di plastica o in fine rame ribattuto.
Dovunque. Ci sono intere vie tapezzate di Fanus.



Ecco dunque svelato il piccolo mistero del cartellone pubblicitario Pril!!
La confezione di detersivo liquido è un Fanus! E’ una lanterna.
Nella scritta si fa riferimento alla nostalgia per un periodo di festa così importante per tutti i musulmani (Avevamo nostalgia di te, Ramadan!). Nella foto ci sono tutti i simboli più tipici di questo periodo. La lanterna Fanus, la luna, la notte stellata che dà inizio ai bagordi alimentari; i festoni decorativi.
Un momento.
Uno potrebbe pensare che questa pubblicità risulti blasfema ai musulmani.
E invece no. Campeggia cubitale sotto i cavalcavia e lungo le rive del Nilo. La trovi dentro i corridoi della metro o in prossimità delle moschee.
Per questo l’ho scelta come immagine e “vero” simbolo del Ramandan egiziano.
Anche qui il consumismo avanza e divora tutto.
Ne parliamo più avanti.

Dicevo che l’iftar è come per noi il pranzo di Natale. Si ritrovano tutti i parenti, i nipotini e le nonne con i nonni.
Impossibile trovare un biglietto aereo o ferroviario in questo periodo. Le famiglie si riuniscono e gli emigranti attraversano l’oceano per festeggiare il Ramadan con i loro cari.
Attenzione. La famiglia in Egitto significa 5 o 6 figli. Perciò la famiglia completa (zii, nonni rimbambiti, cugini petulanti, sorelle pettegole, fratelli, cognati invidiosi, nipotini chiassosi) vuol dire non meno di alcune decine di persone.
Intuisci la bellezza di questo rito familiare dall’eccitazione che vedi dipinta nei loro volti, un’ora prima dell’Iftar.
Pensate. Non solo il rito della riunione della famiglia ma l’attesa sofferente e collettiva del momento in cui potranno bere anche solo un sorso d’acqua.
E’ questo il bello.
La sofferenza è collettiva. Tutti si fanno forza e si incoraggiano a vicenda, si salutano con calore ammiccando al patimento comune, come per dire… “Come va, Ahmed? Dai su, ancora due ore e poi… Iftar!”.
Questo accade anche tra sconosciuti, per strada o nei mezzi pubblici.
La sofferenza accomuna e fa cadere le barriere tra le persone. Questo ho avuto modo di sperimentarlo di persona e devo dire che è stata una bellissima senzazione di gioia comunitaria.
Mi trovavo in metropolitana.
Stavo andando in giro per compere e il tramonto del sole è avvenuto proprio mentre il vagone correva sottoterra.
Ad un certo momento tutti si sono guardati negli occhi con sguardi felici.
Pacche sulle spalle e strette di mano. Ramadan Karim! Si bisbigliavano a vicenda.
Ovviamente erano tutti perfetti sconosciuti nel senso che non si conoscevano tra loro: la classica massa impersonale della grande metropoli.
Pendolari, bambini che tornavano da scuola, casalinghe, contadini, impiegati.
Qualcuno ha estratto dei sacchetti (già pensati per la bisogna) ed ha cominciato una distribuzione collettiva di datteri e di acqua.
Due mani sporchissime e unte mi hanno porto un dattero e una bottiglia di plastica per un sorso d’acqua (per chi se la sentiva di bere da una bottiglia dove avevano messo la bocca 74 persone!).
Non ho bevuto dalla bottiglia nè ho mangiato subito il dattero, simile nell’aspetto a un terreno di coltura di virus minacciosi e letali. Appena arrivato al Don Bosco l’ho disinfettato dentro il microonde e poi l’ho trangugiato.
Ognuno di quei pendolari correva a casa per uno dei tanti Iftar di questo mese.
Tanti, appunto.
Quante mangiatone facciamo noi durante le feste?
Il pranzo di Natale, il cenone dell’ultimo, eventuali ribaltoni il giorno successivo (per far fuori gli avanzi).Così, per soli due o tre pranzi e cene ci sentiamo in colpa per mesi. Ah! La linea! I bagordi natalizi.
Sciocchezzuole.
Qui fanno 30 cene-Iftar. Poi bissano verso mezzanotte con un’altra mangiatona.
E non è finita.
Prima del risveglio, per i più irriducibili c’è il “sohor”, la pantagruelica mangiata consumata all’alba prima del sorgere del sole.
E così via.
Quali sono le conseguenze sociali, economiche, lavorative di tutto questo ambaradan?

La prima conseguenza più evidente è che l ’Egitto semplicemente si ferma.
Sissignori. Si ferma tutto.
Un’ora prima dell’Iftar, ma che dico teniamoci larghi!! 2, 3, 4 ore prima dell’Iftar, cioè verso le 2 del pomeriggio, tutto si chiude, si ferma, non lavora più nessuno.
Ve lo immaginate che pacchia?
Oltre al loro santissimo mese di ferie (ad Agosto come da noi) i musulmani si fanno il secondo mese di ferie (pagate!).
E se il Ramadan, quest’anno, cadesse proprio ad agosto? (cosa che capita puntualmente ogni tot anni?).
Ma-fish mushkela! Come dicono gli egizi: non c’è problema!
Le ferie si spostano a settembre. Allah akbar, Dio è grande!
Così, me la rido al pensiero dei litigi politici e giornalistici che si sentono fare in Italia quanto i vari ministri di turno danno le cifre del prodotto interno lordo italiano:
“Quest’anno il PIL ha sfiorato solo l’ 1,4 %, … dunque lo 0,2 % in meno di quanto previsto… ma, attenzione!! solo a causa di un effetto perverso di uno sciopero e di un ponte inatteso… che avrebbe diminuito la produttività”.

Come dire che da noi, una o due giornate di lavoro in meno distruggerebbero la competitività della nazione!
Qui invece, allegramente e, a parer mio saggiamente, SE NE SBATTONO DEL LAVORO.
Due mesi di ferie (agosto e Ramadan) e… Allah akbar! Dio è grande.

Altre note simpatiche di colore esotico: l’alito collettivo.
Mai sentito parlare di alito collettivo? Da noi no di certo.
Venite in una grande città musulmana nei giorni del digiuno!
Entrare in metropolitana durante il giorno. Bleah!
O in una stanza chiusa dove si tiene una riunione. Blaah!
L’alito collettivo dei digiunanti è terribile!
In classe gli allievi musulmani sanno da pesce morto.
E si comportano come pesci morti.
Stanno svegli fino a tardi per festeggiare con i parenti. Si ingozzano, non dormono, mangiano cibi fritti e indigesti…
E poi dormono! In classe!
E guai se mi arrabbio. Che cavolo, devo essere gentile con loro. In fondo è la sacra festa del Ramadan e loro stanno soffrendo per la loro purezza spirituale.
In classe ne sono successe di tutti i colori.
La classica richiesta del ragazzino:
“Prof Ivano posso andare in bagno?” - con la mano alzata e con un filo di voce, viene subito potentemente sovrastata da i suoi compagni…:
“No prof Ivano, Mahmoud, ora non va in bagno!!!”,
“Perché?” - chiedo io stranito,
“Perché lui ha sete. Lui va bere. Lui No bravo musulmano!”
I ragazzi si accusano vicendevolmente di bere e di mangiare di nascosto!
Così mi è toccato pure vigilare sulla virtù islamica dei miei allievi musulmani, perché se solo avessi concesso loro di andare in bagno, zac!, sarei stato complice del loro peccato verso Dio, pardon Allah.

Dopo qualche giorno mi decido per la consueta linea prussiana.
Severità e rigore. In classe non si dorme.
In più, gli alunni cristiani (il 60%) avendo costatato da parte loro l’andazzo da dormitorio hanno preso, per par condicio, a dormire pure loro.
Sveglio i ragazzi dormienti con potenti pugni sul banco e urlo SABAH AL KHER!
Un mattino di gioia, è questa la traduzione del buongiorno in arabo.
Solo che in questa situazione suona un poco ironico.
L’altro giorno Abu el Ela, uno dei ragazzi della I B, dopo la consueta cannonata di risveglio sul banco, ha alzato la testa strabuzzando gli occhi infastiditi dalla luce.
Si è guardato attorno come per capire dove fosse.
In effetti il risveglio era stato brusco.
Ha bisbigliato un flebile “Sabah en-nur” (un mattino di luce, la risposta tipica) e si è rimesso subito a dormire.

Come se non fosse bastato il mese di bagordi, la festa culminante del Ramadan si chiama “Eid al Fitr”. Là tutto si scatena, appetiti alimentari soprattutto.
Un giorno di festa. Nossignori. Tre giorni interi.
Il risultato di queste feste? E’ evidente.
Obesità. Obesità. Obesità.

Ovviamente tutta questo ossequio al preteso spiritualismo della festa religiosa concede molto spazio al lassismo laicizzante e a più disinvolti atteggiamenti consumistici che stanno prendendo piede anche qua.
Siete malati?
Siete una donna in cinta?
State facendo un viaggio?
Siete angosciati?
Allora siete esentati dal digiuno.
Le possibili esenzioni sono moltissime e non si contano.
Come anche non si contano gli espedienti per interrompere il digiuno senza incorrere nel peccato.

Alcuni giorni fa ho letto una barzelletta sulle pagine di un giornale nazionale che ironizzava su questo lassimo. Un uomo va in stazione e compra un biglietto del treno per Alessandria. Quando arriva compra un altro biglietto per tornare al Cairo, e così via tutto il giorno. Un amico gli chiede perché e lui risponde che secondo il Corano, chi “sta compiendo un viaggio” è esentato dall’obbligo del digiuno!
Ho letto infinite barzellette sui giornali che ironizzavano sul consumismo che si scatenerebbe in questo periodo. Esattamente come da noi ogni anno a Natale; allo stesso modo qui c’è una levata di scudi contro il ramadan consumista che serve solo a riempire di soldi le tasche dei commercianti...
In verità ho avuto la netta impressione che sia così per la stragrande maggioranza dei cairoti.
Nessuno vuole mettere in dubbio l’autenticità del loro sentimento religioso, solo che ormai è evidente come il più puro intento spirituale stia sfumando in quello più edonistico di una bellissima occasione per fare festa, mangiare e divertirsi.
Un'altra osservazione.
In Egitto durante il Ramadan vengono trasmesse alla televisione soap-opera seguitissime da milioni di persone.
Praticamente non si parla d'atro. Dovunque e comunque.
Una sorta di Dallas nostrane, o Beautifoul locali, con protagonisti egiziani e storie egiziane che, con il pretesto dell'intrattenimento televisivo, fanno una critica dei costumi della societa' egiziana; o della sua ipocrisia, del classimo imperante, della corruzione politica; del cambiamento di mentalita' rispetto ai decadenti costumi occidentali.
La polemica che infuocava i media e il sentimento comune, in questi giorni di festa, riguardava proprio il contenuto di queste Soap-opera.
I conservatori si raccomandavano con il pubblico di guardare solo i serial “fondamentalisti”. In questi le donne recitano velate, ed è tutto un inneggiare alle virtù dell’Islam.
Le serie televisive che invece vanno per la maggiore sono assolutissimamente occidentali. Le classiche storie di adolescenti alla moda e dei loro amori proibiti; famiglie moderne con i loro problemi e così via. Se non fosse per le facce mediorientali degli attori sembrerebbero sceneggiati occidentali.
L’Egitto corre veloce verso la sua modernità anche attraverso gli sceneggiati .

Nel corso di italiano per adulti che tegno quasi ogni pomeriggio, ho una classe di 25 studenti. Sono quasi tutti universitari e vengono a frequentare i corsi serali del Don Bosco per ovviare alla lacunosa preparazione dell’università egiziana.
Le ragazze musulmane sono tutte velate, ad esclusione di Heba e Mohga.
Anche loro però, durante il Ramandan sono apparse con il velo. Indossato in modo originale, senza coprire il collo e le spalle ma pur sempre velo.
Un obbligo di facciata durante la sacra ricorrenza.
Penso del resto che anche da noi le chiese, deserte tutto l'anno, si riempiono incredibilmente durante le festivita' natalie e pasquali.
Fatto sta che non ho avuto il coraggio di chiedere loro ragione di questa metamorfosi:
mi sembrava irriverente.

Mohga mi ha chiesto di compilarle un curriculum in italiano.
Come segno di ringraziamento mi ha regalato un piccolo Fanus portachiavi .
Che carino! C’è anche la lucetta! Basta avvitare la lanternina e la lampada si accende.

E’ una piccola cosa ma la tengo come un bene prezioso.
Si sa, sono i pensieri quelli che contano.
E a me fa un particolare piacere avere partecipato al mio primo Ramadan.
E’ un ricordo vero, autentico; regalatomi da una musulmana e non comprato su una bancarella di paccottiglie turistiche.
E’ una cosa autenticamente egiziana che mostrerò agli amici al ritorno.
Soppeso il mio piccolo fanus.
Lo capovolgo e leggo una scritta stampata sulla plastica dorata:



CHINA!!!!.

Mah????
Ramadan Karim a tutti!

16 settembre, 2006

Metafisica del Turismo









Il tour classico in alto Egitto: i templi faraonici

Una mattina di fine Agosto parto per l’Egitto meridionale (l’Alto Egitto perché è la parte alta del corso del fiume Nilo) in compagnia di altri 15 connazionali.
Rimaniamo 7 giorni visitando tutto il possibile.
Non parlerò di quello che abbiamo visto nei dettagli. Chiunque lo voglia non deve far altro che consultare una guida turistica o una agenzia viaggi.
Non avrebbe senso fare un’arida elencazione di templi, obelischi e tombe varie
viste a Luxor e Karnak o nella Valle dei Re, ad Abu Simbel ecc ecc ecc tutte tappe imprescindibili per chi volesse capire tutto, ma proprio tutto dell’antica civiltà egizia.

Premetto che, per tutta la durata del viaggio, sono stato attraversato da un sottile senso di disagio che si chiarirà nella mia mente solo con il passare dei giorni.
Guardate meglio la foto con il geroglifico qui sotto.

E’ un geroglifico “molto antico” sulla pareti di un tempio dell’Alto Egitto.
Roba di 3000 anni fa.
In bell’ordine troviamo:
un carro armato, un sottomarino, un aereo… strano, no?!
Ricordo la nostra guida - mentre ci mostrava questo prezioso reperto nel suo italiano raffinato e pieno di sfumature – la sua voce si era attenuata e si era fatta più misteriosa.
La spiegazione viene sospesa creando un alone di mistero: “Nessuno sa come chi e perché, non chiedetemi altro…”.
Mistero.
Ohhhh! di meraviglia si sprecano. I flash impazzano e la mia Fuji non è da meno nell’immortalare il graffito misterioso.

Ma veniamo alla sostanza del mio viaggio in alto Egitto.
I templi certamente. E con questi un’arida lunghissima elencazione di dati, fatti, battaglie, miti, nomi di re, nomi di dei, nomi di riti ecc ecc.
E le datazioni? Vogliamo dimenticarle?
Di fronte ad ogni costruzione la nostra guida si sofferma, giustamente, sulla collocazione temporale come primo dato da tenere presente:
“Questo è un tempio del medio regno circa 1550 a.c.” oppure “Il faraone Ramsete II visse e regnò 30 anni nel xyz secolo avanti Cristo”.
Ad ogni numero quel senso di disagio cresceva sempre di più.

E’ un continuo bombardamento.
Centinaia di nomi, di leggende, di riti.
Quello è il dio Seth… ah no ca…, è AmonRa il Dio sole! Quello invece è Anubi che pare sempre incazzato come un azteco. Poi c’è sua moglie che se la faceva con Dio K… prima che la scovasse suo marito e la facesse a pezzetti…
Ecco, è questa l’idea che mi trasmettono le rovine egiziane. Violenza, terrore, paura e sottomissione. Non vedo serenità.
La bellezza artistica è al servizio del potere: impressiona, spaventa, sottomette, incute terrore.
Dovunque è un pullulare di faraoni incazzosi che decapitano decine di prigionieri: è una delle immagini più ricorrenti. Il faraone ritorna, ovviamente vincitore, da una battaglia e tiene con una mano i prigionieri legati con lunghe corde. Nell’altra mano brandisce un’ascia…….
Dopo otto giorni di “pietroni cocenti”, perché tali erano le rovine archeologiche, infuocate dal sole dell’alto Egitto (40/45 gradi all’ombra ma noi eravamo sempre AL SOLE) nessuno di noi ne poteva veramente più.
Le nozioni si sovrappongono senza pietà e senza ordine nei nostri poveri teschietti grondanti di sudore e cotti dal sole.
Proprio quando cominciavo a chiedermi cosa mi sarebbe rimasto in testa quel senso di disagio di cui parlavo prima comincia a trovare un senso e una spiegazione quando visitiamo il famossimo e maestoso tempio di Abu Simbel.

Ricordate le piene del Nilo?
Le abbiamo studiate tutti quanti alle scuole elementari.
Il sacro fiume ogni anno durante le piene estive straripava inondando le valli con il suo limo miracoloso.
Così, per secoli, gli Egiziani sono stati, e di gran lunga, il popolo più evoluto e civile e ricco sulla faccia della terra.
E’ ovvio. Chi poteva disporre, in tutto il pianeta di un così grande ed efficiente sistema di irrigazione e di fertilizzazione naturale?
Nel medioevo si impiegarono generazioni per capire come coltivare i campi senza impoverirli; con la rotazione e con la messa a riposo dei terreni.
Però la produttività agricola era molto scarsa.
In Egitto invece c’erano anche più raccolti l’anno: tutto il paese si sviluppava lungo il fiume e lungo il fiume esplodeva la vitalità di questa antica civiltà.
In più, d’estate, durante il periodo delle piene la forza lavoro doveva essere impiegata per settimane in altri lavori in attesa del deflusso delle acque.
Quando ancora si era in piena età della pietra (3000 a.c.) lor signori gli antichi egizi, con la pancia ben piena, si mettono a costruire piramidi di 170 metri, trasportando blocchi di calcare pesanti tonnellate. Non dispongono di ferro, né di martelli, argani.
Il ferro ancora non c’è. Mancano ancora alcuni secoli!
Tutto è fatto a prezzo di una fatica inimmaginabile. Le pietre sono frantumate con altre pietre un po’ più dure. I millimetrici blocchi dei templi e delle piramidi sono levigati con sabbie abrasive fino a renderli perfettamente piatti….

Tutto questo, e cioè il “protagonismo del Nilo” dura fino alla metà del secolo scorso.
Il governo egiziano decide la costruzione di quella che sarà il più grande sbarramento fluviale del mondo: la diga di Aswan.
Le piene del fiume sono ormai un ricordo del passato.
Viene creato un bacino artificiale, il lago Nasser, ovviamente il più grande al mondo (artificiale). Il lago è così grande che coprirà, facendoli irrimediabilmente scomparire, alcuni fra i templi più grandiosi.
Abu Simbel era una di quelle costruzioni.
Smontarla mattone per mattone e metterla in un luogo sicuro? Impossibile.
Non venne costruito con volgari mattoni o pietroni di calcare.
Esso fu scavato dentro una montagna cosicchè il declivio della stessa ne divenne la facciata; all’interno furono ricavate stanze gigantesche.
Il tempio di Abu Simbel è un enorme monolite!
Come mettere in salvo questa piccola montagna?
Allora alcune ditte (italiane) “segarono” in enormi blocchi la montagnola e con notevole perizia tecnica ed estetica, la ricostruirono in un luogo più alto e asciutto.
Fu ricreata una finta montagnola di cemento armato. All’esterno una copertura di sassi invero molto realistica.
Tutto fu spostato: anche la più piccola pietra in modo fedelissimo.
Il ronzio nella testa aumenta.
Per terra, di fronte alla monolitica facciata, stanno enormi frammenti di viso crollati, chissà quando, dalla facciata.
La guida locale spiega che si spezzarono e caddero in seguito ad un terremoto (2000 anni fa).
Nel corso del recupero le ditte italiane con dotta saggezza (a mio modesto parere) scelsero di non modificare ciò che era stato prodotto dall’azione del tempo.
I frammenti di faccione del faraone rimasero lì dove il terremoto li aveva scaraventati: a terra.
Che finezza questi restauratori italiani.
Valico l’entrata del tempio. Guardo alla mia destra e finalmente trovo qualcosa che possa aiutarmi a chiarire quel senso di disagio.
Su un blocco campeggia la scritta:

Bah!
Avete ancora difficoltà a ricordare le date essenziali della storia egizia?
Avete difficoltà a ricordare le date delle 30 dinastie dei faraoni. Medio regno, antico regno, nuovo regno?
Chissenefrega. Basta leggere sui muri, c’è scritto!!!
1841.
La firma orgogliosamente scalpellata da un nostro connazionale di cento anni fa esibisce il fiero orgoglio araldico di un oscuro tenentino di passaggio da queste parti.
Ma sulle pareti ci sono decine di queste firme. Da tutti i paesi d’Europa.

Molti dei miei compagni di viaggio si scandalizzano a causa di questi graffiti a volte impudentemente incisi perfino sui volti degli dei o dei faraoni.
“D E T U R P A T O R I !!!” – urlano alcuni dei di loro.
Non sono d’accordo.
Siamo nell’Ottocento.
E’ l’epoca degli europei in Egitto. Della scoperta di un estetica che invaderà l’Europa: statue, salotti, porte, soprammobili, case in stile egizio.
I viaggiatori europei vivono la meraviglia dell’antichissima civiltà sepolta che ritorna alla luce dopo molti secoli. E la reinventano.
Quelle firme non sono fatte da oscuri writers del secolo scorso ma dai veri creatori di questi templi: essi li hanno “firmati” così come uno scultore firmerebbe la sua opera; così come i fregi del Partenone sono stati “inventati” dagli Inglesi, che li esposero al British Museum. I Greci, a quel tempo, non sapevano che farsene!

L’epoca dei viaggiatori esploratori è finita. Adesso ci siamo noi turisti. E i turisti devono spedire le cartoline, fare le foto, pisciare in un bagno decente; devono vedere il beduino sottomesso che chiede (ma in modo così poetico!) il “bahshish” (la mancia) al turista di passaggio.
Se poi il “beduino della pro loco” (di guardia ai monumenti) è stato sapientemente istruito dalla Pro Loco stessa, vi chiederà immancabilmente un congruo ed equivalente prezzo per la vostra ragazza/moglie: 7 cammelli per la signora? Ma andiamo? Ne vale almeno 25!!”
E i turisti giù a ridere soddisfattissimi di aver pagato il biglietto e di costatare come al mondo ci siano ancora i “selvaggi”, gli “incivili” che farebbero risaltare la nostra superiore civiltà.
Un altro esempio.
Se andate nella piana di Ghiza, al Cairo, laddove ci sono le tre famose piramidi ed entrate nella camera sepolcrale della seconda, (la piramide di Chefren) vi troverete una scritta a caratteri cubitali: “Scoperta da G. Belzoni, anno 1867”.
Non sono sicuro dell’anno. Comunque non ha importanza.
La piramide era lì da 45 secoli e, modestamente, il nostro connazionale padovano l’ha scoperta!!!
Man mano che l’antica civiltà egizia veniva alla luce quella moderna, la nostra, la interpretava a seconda delle esigenze attuali. E’ l’epoca della borghesia industriale e commerciale. I salotti si riempiono di ninnoli, oggettistica faraonica ecc ecc. Anche i circoli massonici fanno riferimento alle simbologie dell’antico Egitto vedendo in queesto il depositario di chissà quali segreti spirituali.
Pensiamo anche alla più grande opera di tutti i tempi: Il flauto magico di Mozart. E’ una favola e, guarda caso, è ambientata… indovinate dove?

L’esploratore-viaggiatore nel corso dei suoi viaggi è trasformato dalla scoperta. Per lui è tutto nuovo, non sa cosa vedra e tornerà dal viaggio completamente rinnovato e trasformato.
Non sa cosa vedrà, lo racconterà alla fine del suo viaggio.
Finita l’epoca dei viaggiatori esploratori, degli Champollion, dei Belzoni, dei Livingstone, adesso ci rimane solo che essere turisti.

Il turista, al contrario del viaggiatore, è colui che trasforma quello che visiterà ancor prima di visitarlo, nel senso che non ha ancora visto quello che vedrà ma sa già quello che dovrà visitare, anzi, gli viene fatto trovare prorprio quello che desidera e nient’altro.
Il turista è colui che paga un biglietto e che trasforma ciò che visita ancor prima del suo arrivo in virtù del suo essere turista.
La prova?
Guardate la foto del tempio di Vattelapesca.

Bello, eh? Visto come luccica al sole? Si direbbe quasi… nuovo!
In fondo i turistelli pagano.
Li manderemo mica a casa con le pive nel sacco? Noooooooooo.
Quelli della sopraintendenza locale si devono essere fregati le mani.
Perché lasciare a terra quel tempio laggiù, in fondo alla valle, crollato da 25 secoli?
Dai lo rimettiamo su! Ma con MATERIALI ORIGINALI che vi credete!! Un restauro filologico!!!!
Che stupidi che siete voi italiani! Se solo ricostruiste il Colosseo o il Foro di Roma!
Un bel biglietto da 100 euri e risaneremmo il PIL. Niente da dire.
Ebbene, il tempio che ho davanti agli occhi è la cosa più simile ad un Autogrill Motta che io abbia visto in Egitto.
Il colpo d’occhio non è male.
Lo hanno ricostruito pietra su pietra e si direbbe ancora più antico di prima.

Il senso di stridore permane e anzi si fa più forte quando arriviamo al tempio di Dendera, vicino Luxor.
La colonna di autobus è scortata dall’esercito con mitra e caschetti militari.
Scendiamo presso un tempio.
I soldati lo circondano prima che i turisti lo prendano d’assalto. Distanti 5 metri gli uni dagli altri con i fucili in mano…io non ho neanche voglia di fare foto. Non riprendo il tempio: è uguale a tutti gli altri. Riprendo le case del paesello che abbiamo invaso in “armi”. Misere e diroccate.

I soldati difendono e circondano la surrealtà di questo luogo e lo difendono dall’Egitto reale.
In quel momento non mi sembrava di essere in Egitto ma altrove.

Al ritorno da quella visita c’è l’ennesima fermata all’ennesimo negozietto di ninnoli turistici che, a loro dire, sono in materiali autentici e finemente lavorati a mano.
Non ci si può sottrarre a questo profluvio di statuette faraoniche.
Un commesso ci dà pure una prova della reale qualità dei loro prodotti. Cerca di dare fuoco ad una statuetta di un gatto.
Colpo di scena! La statuetta prende fuoco ed emana una puzza di plastica bruciata.
Il commesso scuote la testa come per dire: “che gente disonesta!”.
Poi prende, con fare esperto, una statuetta delle loro e la sottopone ad una fiamma molto intensa.
“Vero alabastro!”, ci dice guardandoci con intensità.
Alcuni entrano nel negozio.
Altri incautamente comprano, per svariate decine di euri (uno stipendio di queste parti) le solite statuette in vero alabastro.

In treno, durante il viaggio di ritorno, una di questa statuette mi viene mostrata con grande cautela.
“Vero alabastro!”, dice l’incauto compratore.
“Vero alabastro!”, gli risponde un amico. Prende la stuatuetta e la sbatte con forza contro il vetro.
“Crashhhh????”.
No, vi sbagliate.
“SBONNNGGGGG !!!!”.
L’alabastro, chissà perché, adesso ad un esame appena più approfondito sembra un plasticone.
Anzi no. E’ proprio plastica.
Per fortuna gli amici la prendono a ridere.

Appoggio la testa sul vetro del finestrino e spero di addormentarmi presto e di risvegliarmi al Cairo.
Attraverso il vetro bisunto assisto all’ultimo assalto dei venditori locali nei confronti dei poveri turisti nordeuropei che stanno cercando di entrare nel vagone.
Ripenso alla fatica degli antichi per levigare quelle montagne di pietra a mano.
Oggi invece i tempi della civiltà industriale non ci consentono più neanche di levigare la pietra per fare una statuetta: non sarebbe conveniente.
Come per una beffa tragicomica del destino l’infinita fatica delle generazioni passate è stata trasfigurata nelle statuette di plastica: l’Egitto moderno è una citazione di quello antico.
Con la testa sempre appoggiata al vetro penso al fatto che gli egiziani moderni basano gran parte del loro prodotto interno lordo sulla fatica immane di antichissime sconosciute generazioni cui devono gran parte del loro sostentamento.

08 agosto, 2006

Una domenica sul Mar Rosso




Non si tratta ovviamente di Sharm es-Sheikh bensì di un’altra località molto meno famosa di nome Ain Sokhna. Si trova a circa 140 km di distanza dal Cairo (mentre Sharm è ad almeno 600 km) ed è raggiungibile tramite un’autostrada nuova e fiammante.
In tutto sono due ore.
Mezz’ora per l’attraversamento della metropoli e 1 e ½ per raggiungere la costa.
Partiamo in otto con due macchine. Alla guida Don Abdu, giovane prete cattolico egiziano, e Don Ashraf (altro sacerdote).
Salgo nella macchina di Don Abdu. E subito mi rendo conto di aver fatto una scelta imprudente.
Appena infilate le cinture di una vecchia 132, il Don ci chiede di recitare coralmente un’Ave Maria.
Io la recito con tutto il cuore anche perché Don Abdu non è nuovo a esibire saggi di guida sportiva suicida. Ed infatti, uscendo dall’Istituto a tutto gas, Don Abdu si “brucia” subito il bonus dell’Ave Maria tagliando di brutto la strada a un microbus che sopravveniva da destra. Imprecazioni e clacson. Ma è tutto nella normalità.
Raccomandazioni da parte mia e di Licia di andare più piano: L’Ave Maria potevamo giocarcela su punti più “delicati”, aggiungo io; che so, la tangenziale a otto corsie… Don Abdu ride.
Raggiungiamo la periferia. Tutta la fascia perimetrale della citta è percorsa da un’autostrada, la Ring Road, che lambisce ora quartieri di palazzi carini e pretenziosi, ora squallidi tuguri a più piani di mattoni rossi e tetti piatti ricolmi di macerie.

L’Egitto, al di fuori della strettissima fascia attorno al Nilo, è un grande deserto.
Solo che il deserto non lo si può intuire rimanendo all’interno della città perché si è sempre in una foresta di palazzoni.
Solo quando si esce la vista dell’ambiente esterno è impressionante. Il paesaggio desolato circonda il nucleo urbano. La città è come se finisse di colpo. In avanti a continuare è solo la strada; un nastro nero che si stende sopra un mare giallo immobile e luminosissimo.
Don Abdu e Don Michum mi indicano alcuni “esperimenti” di urbanistica. Nuovi quartieri satellite (palazzoni a non finire e nulla più) vengono costruiti fuori dalla metropoli.
Si cerca di dare un respiro alla città, di decongestionarla.
Dubito che ci riusciranno mai. Sembra quasi che gli Egiziani anelino il caos e la compenetrazione di quanti più esseri umani possibile.
Arrivati all’autostrada che porta diritti al mare, ci si para di fronte un superbo casello autostradale in cemento armato della IV dinastia. Capitelli, sacre raffigurazioni faraoniche, palme finte.

Un campionario del cattivo gusto che sinceramente, almeno in un struttura urbana, non mi sarei aspettato.
A metà tragitto Licia, intravedendo la sagoma di un autogrill chiede di fermarsi.
Io penso tra e me e me… “troppo tardi!”, poiché andiamo a 130 e la corsia di decelerazione per entrare al grill è già alla nostra destra. Dovremo aspettare il prossimo?
No! Perché mai aspettare, se possiamo fermarci qui?
In fondo si tratta solamente di
1) inchiodare a 130 km l’ora
2) girare bruscamente le ruote a destra riponendo un’eccessiva fiducia nella stabilità del mezzo.
3) il tutto su una vecchia 132 Fiat (di merda) di fabbricazione egiziana, con gomme (di merda) e sospensioni molto dubbie (fors’anche dello stesso materiale).
4) La macchina comincerà violemente a derapare sull’asfalto sabbioso per almeno 50 metri con grande stridio delle gomme suddette. L’equipaggio intanto si attaccherà a qualunque maniglia disponibile imprecando in un oscuro dialetto yemenita.
Quel cordolo di cemento armato sulla sinistra? Cosucce! Quella scarpata sulla destra?
Le gomme hanno tenuto!
Di cosa preoccuparsi? In fondo abbiamo solo rischiato di finire fuori strada o di schiantarci su un muro di cemento.

Mentre Licia va in bagno offro un caffè a Don Abdu: “Itnin Ahwa turki mazbut!” - due caffe alla turca “mazbut”. Mazbut vuol dire mediamente zuccherato. Tanto che se uno, in Egitto, chiedesse in un bar: “mi dà lo zucchero che ci penso io!” scoppierebbe una mezza rivoluzione.
Esistono molte parole che descrivono minuziosamente la gradazione zuccherina del caffè.
Ma lo zucchero lo mettono loro.
Ripartiamo e in breve arriviamo sulla strada costiera che va verso Sud.
La strada è bella. Mi ricorda la litoranea ligure o meglio la statale Ionica in Calabria dal momento che il paesaggio è completamente desertico, privo com’è di anche solo un filo d’erba o di alberi.
La strada è una serpentina tra il mare e una catena costiera di colline montagnose.
Rocce e sabbia.
Penso che in due giorni di viaggio continuato verso Sud arriverei in Sudan!
Ecco la nostra spiaggia.
I Don accompagnatori hanno optato per una struttura privata a pagamento. 50 lire egiziane (meno di 7 euro) a testa già sono un filtro notevole per la maggior parte degli egiziani. E’ un grande stabilimento recintato. Noleggiamo una squallida baracchetta in plastica. Dentro c’è un lettino e un bagnetto. L’igiene è un sogno lontano però la baracchetta dispone di aria condizionata a temperatura polare!
Solo in questo tipo di resort gli occidentali possono bagnarsi o stare in spiaggia senza rischiare tanti problemi. Altrove sarebbe un tantino complicato mettersi chiappe all’aria.
Voi donne, nelle spiagge libere egiziane sareste così matte da indossare un Costume da bagno??
Ah, ah, ah, ah!
Giulia e Laura mi hanno raccontato che in altri posti le persone sono state invitate a rivestirsi. Nelle spiagge libere e popolari gli uomini, talvolta, hanno costumi lunghi come da noi negli anni ’20 o giù di lì. Le proibizioni sono però più marcate per le donne.
Entriamo in acqua.
E’ caldissima! Una goduria.
Il mare è bellissimo e sbavo letteralmente all’idea che tornerò regolarmente qui a fare il bagno anche fino a Novembre.
C’è la barriera corallina, centinaia di pesci colorati. Don Michum mi spiega come fare per avvicinarli e vederli meglio. Basta un pezzetto di pane e subito ci sarebbe una cena di pesce per 20 persone. Poi cavallucci marini, conchiglioni più o meno giganti.
Don Bernardo mi racconta di aver cavalcato una tartaruga di mezzo metro e di aver avvicinato, con relativa facilità anche i Delfini.
Un sogno.
Un’altra cosa che abbonda sono le meduse.
Piccole e infide, non appena le scorgiamo partiamo come siluri impazziti per il timore di essere punti e urticati.
Don Michum, nel suo proto- italiano del XII secolo, molto cantato e privo di connessioni grammaticali, mi spiega come distinguere le meduse buone da quelle urticanti.
Io non ci capisco niente. Poi me ne mette una in mano.
Mi fa un discorso sui colori. Quelle azzurre e quelle bianche… “quelle azzurre sono innocue?” – chiedo io incautamente – sì certo, ma bisogna che siano piccole; se sono azzurre e grandi….
Il Don egiziano mi ripete tutto da capo. Adesso ho capito!
Avanzo verso riva. Sono stato tanto in acqua e sono stanchetto.
Davanti a me c’è un’altra medusetta di colore azzurro elettrico argenteo.
E’ bellissima e delicata.
La tiri fuori dall’acqua solo per un attimo, per vederla meglio. Non oserei mai fare come tanti che le lanciano a riva. Appena la rimetti dentro… subito ricomincia a muoversi con una delicatezza commovente… sembra che danzi con i suoni del mare.
Strane creature.

A metà giornata il “resort” mette a disposizione un ristorante dove mangiamo molto bene.
E’ interessantissimo vedere la commistione di famigliole che si trovano in questo luogo.
Ci sono nuclei familiari “evoluti” all’Europea. Lei è ossigenata e truccatissima, un po’ volgare. Marito ciccione-baffonero un po’ annoiato.
La famiglia “prolet” egiziana invece è molto più caratteristica. Bambini, numerosi, ronzanti attorno alla mamma invelata; poi ci sono i figli più grandi, adolescenti maschi spesso con look abbastanza tamarro, capello impomatato e camiciole giovanili alla moda; le sorelle maggiori sono invelate come la mamma. Entrambe le figliolanze, sia maschili che femminili dispongono in ugual misura di sobri cellulari grandi come racchette da ping ping con sobrie sonerie mediorientali di gusto assai discutibile.

Ci fermiamo per salutare un amico che ha passato la domenica nella spiaggia vicina. Quella libera, dove vigono le ferree regole della pudica morale islamica.
Intravedo delle bagnanti vestite da capo a piedi. In acqua con velo e i jeans!
Fa comunque meno impressione il bagnante-burkizzato: se non altro sta al fresco.
Fa molta più impressione (e fa molto pensare) quella tizia che “prende il sole” sulla spiaggia completamente fasciata di un lububre vestito nero. Però ha un cappello in testa.

Ecco a mio parere la vittoria dell’Occidente e dei suoi costumi – cioè la prova matematica che il “peggio” del nostro mondo si sta insinuando in ogni angolo del pianeta - si misura proprio a partire da questa immagine che ne è un po’ il simbolo: la donna in-burkata che prende il sole.
Se già è inquietante chiedersi cosa spinga milioni di persone (in tutto il nostro mondo) a stare ore e ore a prendere il sole sulle spiagge; vittoria dell’assurdo, dal momento che il nostro culto del salutismo edonistico fa a botte con i danni per la salute, ormai evidenti e conclamati, dell’eccessiva esposizione solare; a maggior ragione inquietante (e surreale) è chiedersi cosa spinga una donna stare sotto il sole COMPLETAMENTE occultata da un lugubre velo nero!
Che senso ha?
Lo “stare in spiaggia” è una cosa che si è affermata da noi a partire dagli anni ’20. Dicono (e probabilmente è vero) che la cosa si impose, come fatto sociale e di costume, quando la mitica Coco Chanel apparve in società con la pelle abbronzata. Cosa disdicevole e ancora molto proletaria a quei tempi. Da quel momento in poi il culto dello “spiaggismo” dilagò favorito anche da una nuova società industriale in cui operai e impiegati disponevano, per la prima volta, di tempo libero e di ferie. Da noi i ceti più ricchi cominciarono a frequentare i “bagni estivi”, sfidando lo stupore della maggioranza che ancora non capiva il senso di questo inutile rito.
Quando poi il culto divenne di massa, allora nessuno si stupì più di una cosa così strana come lo stare immobili sotto il sole. Anzi oggi passa per snob chi la pensa al contrario.

Alle 17 ripartiamo verso la metropoli.
Prima di partire c’è un attimo di parapiglia.
Arrivano i delfini.
Sono almeno 9 o 10 e sono vicinissimi alla riva. Si direbbe che si siano avvicinati per guardare meglio quegli strani animali bipedi vicino alla riva.
Nel capanno sotto il quale ci troviamo regna un’eccitazione generale.
E’ un coro di…. “HAI VISTO? CHE TI DICEVO? A QUEST’ORA SI VEDONO SEMPRE, CHE SPETTACOLO! CHE ANIMALI AFFASCINANTI I DELFINI …COSI’ VICINI !!”.

I delfini cominciano a sfilare via. Si immergono veloci per l’ultima volta e poi via chissà dove.
In cuor mio immagino che ogni delfino dica all’altro che gli nuota accanto:
“HAI VISTO? CHE TI DICEVO? A QUEST’ORA SI VEDONO SEMPRE, CHE SPETTACOLO! CHE ANIMALI AFFASCINANTI GLI UOMINI …COSI’ VICINI !!”.


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07 agosto, 2006

MICHELE


Non e'accaduto al Cairo.
E' accaduto li' da voi in Italia.
E' caduto dal cielo il mio secondo meraviglioso nipotino.
Non posso ne' voglio aggiungere altro perche' sono rimasto senza parole.
Ciao Michele!

01 agosto, 2006

Awladi (I miei ragazzi)

La seconda settimana è stato un massacro. Come la prima.
Alla fine di ogni lezione sono assolutamente distrutto. La voce è stanca e anche le gambe perché corro nell’aula per quattro ore di seguito come una cavalletta; rimprovero i ragazzi che si alzano in piedi; scrivo mille volte la stessa parola alla lavagna, sui banchi, sui quaderni..
Meno male che non sono l’unico.
Quando vado in mensa per il pranzo, alla fine di ogni lezione, noto che siamo tutti un po’ pallidi e con lo sguardo nel vuoto. Segno che la lezione è veramente pesante per tutti.
Non si contano i KEFE’IAAAAAAA !!! (bastaaaaaa!!) urlati a pieni polmoni, per farli stare zitti. Non so come siano gli adolescenti italiani.
Questi sono dei casinisti ipercinetici e terribili. Ne ammazzerei volentieri qualcuno. In più sono degli attori nati, dei furbi irriducibili; negherebbero l’evidenza anche se vengono inchiodati da molti testimoni.
Però ci divertiamo. Ridiamo spesso di gusto. Io li prendo in giro o imito la loro goffa pronuncia per spronarli a pronunciare meglio i suoni della nostra lingua. Dal canto loro, mi sfottono quando oso pronunciare una parola in arabo.
Pero’ veramente difficile coinvolgerli.
Fa un caldo forte e aprire le finestre per fare passare l’aria è ancora peggio. Il traffico sulla Abd el Kader Taha è così forte e caotico da coprire ogni voce.
Poi è difficile spiegare certi concetti. Provateci voi a spiegare la differenza tra "è" e "sono" a degli arabi! In arabo non esiste il verbo essere!!! E in che modo glielo spiego, dal momento che non possiamo comunicare? A grugniti, come al solito. Poi qualcuno sa l’inglese e traduce per tutti.
Quello dell’Inglese è un altro punctum dolens. In effetti farebbe comodo, talvolta, comunicare con quella lingua. TUTTI, a parole, sanno dire "I speak English". Ecco bravi; però al 99% si fermano lì e non sanno dire altro.

Qualunque cosa va spiegata con un grande dispendio di fantasia.
Dire che il cellulare deve essere spento, che non bisogna chiamare o ricevere telefonate… potrei fare un disegnetto alla lavagna ma preferisco fare una scenetta.
Insceno un alunno maleducato che interrompe la lezione per telefonare. Mi siedo con loro su un banco vuoto della classe. Fingo di ascoltare la lezione e poi "driiiin" simulo con la voce il trillo di un telefono. "MMAMMMA!" urlo all’apparecchio, poi li guardo annuendo ed indicando il cellulare con l’indice: "E’ MAMMA!".
E loro giù a ridere come matti.
Poi rubo una merendina ad uno di loro, la scarto e molto platealmente la mangio e fingo di partecipare alla lezione. Scaglio la carta a terra. Fingo anche di sputare, a terra ovviamente.
LORO LO FANNO. Magari fuori della finestra, ma lo fanno.
In quei casi è difficile Reagire perché bisogna avere la delicatezza di intervenire senza offenderli. A loro magari pare naturale!
Imporre le regole: questi sono gli ordini tassativi dei Salesiani.
Comunque, man mano che passano i giorni, le tessere fondamentali del mosaico linguistico trovano il loro posto e comincio (comiciamo) a dire le prime frasi. "Quando", "adesso", "prima", "dopo", "se", "ma", "forse", "silenzio", "aspettate", "scrivete"… 15 giorni fa, all’inizio del corso non disponevo di queste parole. Non ricordo neanche come facessi a comunicare!.
Il problema più grande è la disciplina. L’ho già detto.
Anche se ho scoperto che sono in grado di farmi rispettare, la lezione è un tour de force fisico e psichico.
Ho scoperto che ho fatto un grosso errore. Non si può essere simpaticoni con una classe di terroristi come la mia. Solo severi e accigliati per tutto il tempo della lezione.
Con gli adolescenti credo che non ci siano vie di mezzo. Se gli dai un unghia si prendono tutto il resto.
Questa settimana, ahimè, sono stato costretto a prendere rimedi estremi e un po’ mi è dispiaciuto.
P. e M. e P. H, i Tre dell’Ave Maria,. sono stati spediti da me nello studio di Don Renzo (il capo dell’Istituto) in punizione. Sono tutti cristiani. In questo hanno ragione le voci di corridoio: i cristiani sono gli alunni peggiori. Confermo. Sarà che si sentono a casa loro, tant’è che rompono molto di più.
Il giorno successivo i ragazzini sono tornati scortati dai rispettivi genitori per una lavata di capo.
Quello che è incredibile è la loro faccia di bronzo: hanno spudoratamente negato di aver mai aperto bocca anche una sola volta, dopo 15 giorni di puro e assoluto casino. E i loro genitori a difenderli!
"MIN? ANA?", Chi? Io? Mi ha detto P. e intanto sua mamma mi inseguiva per il cortile cercando di farmi cambiare idea. L’avrei strangolato, lui e la sua faccia di…
Ad altri insegnanti è andata peggio di me. Ne ho visto qualcuno alle prese con mamme musulmane, tostissime e decisissime, dall’interno del loro burka, a difendere i loro criminali pargoletti.
Per darvi un’idea di quanto siano delinquenti i miei alunni (anche rispetto alle altre classi, nove in tutto) basti solo questo particolare che racconterò subito.
E’ una cosa tipicissima (ma mi avevano già avvertito) da parte degli studenti egiziani, invitare i propri professori italiani in qualche "club". Così, per cercare di stabilire una sorta di complicità con i prof., per cercare di farseli amici.
Ovviamente potete immaginare di cosa si tratti.
I soliti localuzzi squallidi (di solito nelle vicinanze delle Piramidi), con donnine più o meno nude.
Solo che, piccolo ma non trascurabile particolare, questo doveva partire come proposta degli alunni più grandi; ad esempio dagli studenti del quinto anno (quando comincerà l’anno scolastico).
E invece no. I miei piccoli mostri, dei 14enni, mi hanno già invitato!!!
Il "club!", el-Nadi, (come dicono loro)… addirittura mi avevano già fissato l’ora e il giorno, con l’arroganza tipica di chi sa che non riceverà un rifiuto.

Comunque devo ammettere che sono svegli. Provate voi ad imparare 50/60 parole di arabo alla settimana! Infatti questo è il loro ritmo di apprendimento.
Al giovedì c’è sempre il film. Proiezione del "Il re leone" e, la settimana dopo, "Madagascar". Molto belli. Commoventi e divertentissimi. Intravedo nel buio della sala i visetti commossi dei miei piccoli mostri… ops! … alunni.
I film sono in italiano ma la storia si seguirebbe benissimo anche se fosse in Tibetano. Non mancano le proteste: "Can’t understand!" Mi dice uno, un po’ saputello. Come faccio a spiegargli che non ha importanza; e che così intanto acquista familiarità con le sonorità del nostro meraviglioso idioma e che la storia si segue facilmente e che… varremengo! …opto per un calcio nel didietro e lo spedisco dentro il cinema.
Tutti poi insistono per chiedermi il numero di telefono: "Prof. Ivano! Low samaht, Raqmak al Tilifun!" (professor Ivano, per favore, il tuo numero di telefono!) Delusi quando spiego loro che non posso dare a tutti il numero. Verrei chiamato continuamente. Però non demordono. Ad ogni appello, ad ogni inizio di lezione, alla fine, durante l’intervallo… mi chiedono il numero!
Uno poi pensa: "Sono ragazzini". Vero NIENTE! Tutti gli egiziani sono così. Tali e quali.
Ieri mattina, Lunedì, durante la prima lezione della terza settimana, ho scoperto che due si erano picchiati di santa ragione… durante la lezione!
Non so come sia successo. Mi giro.. sento un po’ di trambusto e… deve essere partito un diretto sul viso di un certo P.H. che, detto fra noi, meritava ben più di un pugno.
E’ il caos.. Mezza classe si alza in piedi. Chi per fare il delatore e sputtanare il "boxeur" chi per difendere il malcapitato.
Le voci si sommano le une con le altre in un crescendo di eccitazione.
E’ troppo. Mi metto a sbraitare anch’io e li faccio sedere.
Adesso c’è un silenzio di tomba.
Mando uno dei miei alunni peggiori, Omar (passa le mattinate a dormire), a chiamare il mio asso nella manica: Abdu.
Abdu arriva subito. Lui lavora nell’officina dell’Istituto. Si occupa di torni e frese.
Ovviamente è un ex-allievo, ora insegnante. Temutissimo dai ragazzini, appena entra in classe, è come se la temperatura si abbassasse di 20 gradi.
Chiamare Abdu è come chiamare l’esorcista. Basta anche solo dire il suo nome e i ragazzini merdosi tacciono all’istante.
Stavolta sono stato veramente cattivo. Ma mi ci hanno costretto. Sono stato costretto a minacciarli pesantemente.
La prossima volta che succederà qualcosa li manderò direttamente a casa. Questo, se accadesse sarebbe gravissimo, per loro e per la loro presentazione all’esame finale che si terrà il 18 agosto.
Dubito che servirà a qualcosa. Se non altro adesso sono pienamente di avere fatto un errore: sono stato troppo amichevole con loro e adesso ne pago lo scotto.
Da domani assumerò un atteggiamento prussiano fin dai primi minuti di lezione. In fila per uno. Silenzio. Alzate la mano. Silenzio.
Da domani si cambia musica. Speriamo non mi scappi da ridere.

Burg al Qahira : la torre del Cairo


Alla fine di ogni mattinata saremmo tutti troppo stanchi per andare in giro.
Troppo stanchi e troppo caldo. Al massimo, nella seconda metà del pomeriggio, ci si concede una passeggiata di un paio d’ore in posti "facili" e rilassanti.
Decidiamo di salire in cima al simbolo della grande Cairo.
Dai suoi 187 metri di altezza potremo vedere tutta la città.

La torre si trova in mezzo a Zamalik, una delle due isole sul Nilo: Zamalik è uno dei quartieri "bene" abitato dalla maggior parte degli occidentali; qui hanno sede anche le ambasciate e i consolati come anche le sedi di rappresentanza di compagnie di tutto il mondo.
Apprendo dalla guida che la torre, fu costruita dal 1957 al 1962 grazie ai finanziamenti sovietici. Ed in effetti la costruzione è una commistione "armoniosa" di motivi architettonici socialisti e faraonici. Provate a immaginare qualcosa a metà tra Ceausescu e Tutankhamon.
Non appena raggiungiamo la cima, ci vengono subito incontro, tristemente comici, un’intera squadriglia di Faraoni e Faraone. Ovviamente sono solo dei (tristissimi) figuranti che offrono una breve spiegazione in inglese delle meraviglie della torre.
Sulla sommità, nel terrazzo panoramico circolare, stanno circa una trentina di persone. Molti gli occidentali come noi. Poi c’è una comitiva di donne provenienti dal Qatar: sono tutte velate da un telo nerissimo, integrale e totale... Da cosa capisco che provengono dal Qatar?
Semplicemente perché alcune di queste portano con orgoglio, appuntato in bella evidenza sul petto, una grossa spilla metallica con questa scritta: "I LOVE QATAR !".
Non metto in dubbio che si possa amare la propria patria.
Non lo metto in dubbio anche nel caso del Qatar, che francamente farei fatica a distinguere dal puro Nulla (una penisola di sabbia e niente più). Quello che è incredibile - in queste donne - è l’ostentazione di un’identità, di una peculiarità ("Ehi, amici!, io vengo dal Qatar! Non siamo persone qualunque!!") da parte di chi NON può mostrare NE’ la propria identità, NE’ il proprio viso. Anche le mani e i piedi, ovviamente, sono preclusi ai famelici sguardi maschili…
Ammiro le piramidi, laggiù in fondo, immerse nella foschia, a 15 chilometri dal centro.
Individuo anche il quartiere dell’istituto Don Bosco a circa 4-5 chilometri di distanza.
L’orizzonte è fosco: è una giornata afosissima e l’umidità atmosferica si fonde alla cappa di smog che sovrasta la grande Cairo.
Alla sera dopo cena mi intrattengo lungamente con Don Abdu. E’ un simpaticissimo prete egiziano. Cattolico. Sta studiando a Roma per completare la sua formazione di Salesiano.
Discutiamo della situazione dei Cristiani in Egitto .
Ovviamente, cos’altro potrei fare?, concordo con lui. Solo che -e gli chiedo un parere in proposito - ho l’impressione che l’ondata crescente di fondamentalismo islamico in tutto il mondo, sia in verità un sintomo e una spia della sua profonda voglia di rinnovamento. Anche l’Islam infatti, come è già accaduto da noi occidentali, sta affrontando la sua lotta contro la modernità.
E la modernità significa, libera circolazione delle idee; liberazione della donna; valorizzazione dell’infanzia; interpretazione libera dei testi sacri; leggi laiche non legate all’arbitraria interpretazione dei testi religiosi (il Corano).
Comunque, sebbene il 90 % delle donne sia velato, presenti cioè il capo e spesso le spalle coperte da un velo; ebbene questo velo è quasi sempre vivacemente colorato; ornato di paillettes, o ricami preziosi.
Il resto del corpo è poi avvolto in magliette attillate o jeans stretti alla moda europea.
Le donne egiziane, nei limiti rigidi imposti loro dalla morale islamica, usano il proprio corpo con non minore malizia di quelle europee.
Per le più caste c’è una lunga gonna, fino alla caviglia. Anche questa però cade con sapienza sui fianchi, avvolge e valorizza il corpo e dona all’incedere una notevole grazia.
I volti sono truccatissimi. Spesso anche in modo eccessivo e volgare.
A questo punto non si capisce che senso abbia la proibizione di coprirsi la testa quando tutto il corpo con tutte le sue forme è offerto allo sguardo e all’esibizione per gli altri.
Segno che ormai il velo si è trasformato. Un tempo aveva un significato più forte: di nascondimento di una proprietà privata, quale era appunto considerata la donna.
Oggi è diventato il simbolo di un’appartenza culturale; un guscio vuoto privo di reale significato, una imposizione fine a sé stessa che fatica sempre di più a trovare un senso o una giustificazione o una coerenza in ciò che propone.
La cosa più buffa è che appena vent’anni fa, TUTTE le donne o quasi, già non portavano più il velo! Quando stava cadendo nel dimenticatoio della storia, il velo, così come molti precetti formali, sono tornati ferocemente alla ribalta.
...
Serata al Mohandiseen. Altro quartiere di lusso. Di gran lunga uno dei quartieri più famosi per i divertimenti notturni. Lungo viale con palme e negozi scintillanti.
Andiamo al "Concorde", un locale molto carino con alcuni ragazzi dell’istituto.
Io prendo un "Umm Ali". Letteralmente "la mamma di Alì", una sorta di budino al latte con biscotti vaniglia e cannella. Per fortuna è stato passato al forno! Non ci saranno i temutissimi problemi intestinali.
(A proposito di intestino. Il giorno successivo ci sarà la prima "caduta" sul campo. Giulia sta male e non fa lezione. Anche Claudio, pur non perdendo lezioni, mangia brodo e riso in bianco da tre giorni.)
Nel locale tutti gli uomini si baciano sulle guance e si abbracciano vigorosamente come se non si vedessero da anni. C’è una musica fortissima, sono infastidito. Tutti fumano la Shisha, il nome egiziano del Narghilè.
Torniamo con un taxi alla scuola.
Tragitto in taxi pericolosissimo, seppur, ahimè, nella norma!
Rischiati almeno tre o quattro scontri, speronamenti o tamponamenti. L’unico che pare non essersene accorto è l’autista. Nel fiume di macchine (la maggior parte con i fari spenti!!) che attraversano i lunghi viali della città, il nostro Caronte si insinua con perizia schumacheriana indovinando spazi impossibili. Giovanni da Pederobba è terrorizzato. A me fa ridere.
Nel mio arabo-egiziano ancora alle prime armi riesco a fare una chiaccheratina.
Spiego all’autista, sperando rallenti un po’, chi siamo e cosa facciamo al Cairo.
"Antùm mudarrisin fi-l Dun Buscu?" (voi professori del Don Bosco?), mi chiede, si stupisce piacevolmente, e ci dimezza subito la tariffa.
Mi spiega che un nipote… o qualcosa del genere (parlava troppo veloce) aveva frequentato la scuola. Mi spiega che è musulmano ma che i Cristiani sono tutti suoi amici.
Del resto… "ITALIA, BABA IOHANNA PAUL II, raghil kibir !!", urla a gran voce. Un grande uomo, "raghil kibir", un grande uomo. E fa un largo movimento delle mani per sottolineare la statura morale dell’ex papa.
Io invece le mani le uso per puntarmi contro il cruscotto, sapientemente foderato di uno schifosissimo pellicciotto sintetico, e spero che i freni di una Peugeot del 1972 funzionino ancora a dovere.