08 agosto, 2006

Una domenica sul Mar Rosso




Non si tratta ovviamente di Sharm es-Sheikh bensì di un’altra località molto meno famosa di nome Ain Sokhna. Si trova a circa 140 km di distanza dal Cairo (mentre Sharm è ad almeno 600 km) ed è raggiungibile tramite un’autostrada nuova e fiammante.
In tutto sono due ore.
Mezz’ora per l’attraversamento della metropoli e 1 e ½ per raggiungere la costa.
Partiamo in otto con due macchine. Alla guida Don Abdu, giovane prete cattolico egiziano, e Don Ashraf (altro sacerdote).
Salgo nella macchina di Don Abdu. E subito mi rendo conto di aver fatto una scelta imprudente.
Appena infilate le cinture di una vecchia 132, il Don ci chiede di recitare coralmente un’Ave Maria.
Io la recito con tutto il cuore anche perché Don Abdu non è nuovo a esibire saggi di guida sportiva suicida. Ed infatti, uscendo dall’Istituto a tutto gas, Don Abdu si “brucia” subito il bonus dell’Ave Maria tagliando di brutto la strada a un microbus che sopravveniva da destra. Imprecazioni e clacson. Ma è tutto nella normalità.
Raccomandazioni da parte mia e di Licia di andare più piano: L’Ave Maria potevamo giocarcela su punti più “delicati”, aggiungo io; che so, la tangenziale a otto corsie… Don Abdu ride.
Raggiungiamo la periferia. Tutta la fascia perimetrale della citta è percorsa da un’autostrada, la Ring Road, che lambisce ora quartieri di palazzi carini e pretenziosi, ora squallidi tuguri a più piani di mattoni rossi e tetti piatti ricolmi di macerie.

L’Egitto, al di fuori della strettissima fascia attorno al Nilo, è un grande deserto.
Solo che il deserto non lo si può intuire rimanendo all’interno della città perché si è sempre in una foresta di palazzoni.
Solo quando si esce la vista dell’ambiente esterno è impressionante. Il paesaggio desolato circonda il nucleo urbano. La città è come se finisse di colpo. In avanti a continuare è solo la strada; un nastro nero che si stende sopra un mare giallo immobile e luminosissimo.
Don Abdu e Don Michum mi indicano alcuni “esperimenti” di urbanistica. Nuovi quartieri satellite (palazzoni a non finire e nulla più) vengono costruiti fuori dalla metropoli.
Si cerca di dare un respiro alla città, di decongestionarla.
Dubito che ci riusciranno mai. Sembra quasi che gli Egiziani anelino il caos e la compenetrazione di quanti più esseri umani possibile.
Arrivati all’autostrada che porta diritti al mare, ci si para di fronte un superbo casello autostradale in cemento armato della IV dinastia. Capitelli, sacre raffigurazioni faraoniche, palme finte.

Un campionario del cattivo gusto che sinceramente, almeno in un struttura urbana, non mi sarei aspettato.
A metà tragitto Licia, intravedendo la sagoma di un autogrill chiede di fermarsi.
Io penso tra e me e me… “troppo tardi!”, poiché andiamo a 130 e la corsia di decelerazione per entrare al grill è già alla nostra destra. Dovremo aspettare il prossimo?
No! Perché mai aspettare, se possiamo fermarci qui?
In fondo si tratta solamente di
1) inchiodare a 130 km l’ora
2) girare bruscamente le ruote a destra riponendo un’eccessiva fiducia nella stabilità del mezzo.
3) il tutto su una vecchia 132 Fiat (di merda) di fabbricazione egiziana, con gomme (di merda) e sospensioni molto dubbie (fors’anche dello stesso materiale).
4) La macchina comincerà violemente a derapare sull’asfalto sabbioso per almeno 50 metri con grande stridio delle gomme suddette. L’equipaggio intanto si attaccherà a qualunque maniglia disponibile imprecando in un oscuro dialetto yemenita.
Quel cordolo di cemento armato sulla sinistra? Cosucce! Quella scarpata sulla destra?
Le gomme hanno tenuto!
Di cosa preoccuparsi? In fondo abbiamo solo rischiato di finire fuori strada o di schiantarci su un muro di cemento.

Mentre Licia va in bagno offro un caffè a Don Abdu: “Itnin Ahwa turki mazbut!” - due caffe alla turca “mazbut”. Mazbut vuol dire mediamente zuccherato. Tanto che se uno, in Egitto, chiedesse in un bar: “mi dà lo zucchero che ci penso io!” scoppierebbe una mezza rivoluzione.
Esistono molte parole che descrivono minuziosamente la gradazione zuccherina del caffè.
Ma lo zucchero lo mettono loro.
Ripartiamo e in breve arriviamo sulla strada costiera che va verso Sud.
La strada è bella. Mi ricorda la litoranea ligure o meglio la statale Ionica in Calabria dal momento che il paesaggio è completamente desertico, privo com’è di anche solo un filo d’erba o di alberi.
La strada è una serpentina tra il mare e una catena costiera di colline montagnose.
Rocce e sabbia.
Penso che in due giorni di viaggio continuato verso Sud arriverei in Sudan!
Ecco la nostra spiaggia.
I Don accompagnatori hanno optato per una struttura privata a pagamento. 50 lire egiziane (meno di 7 euro) a testa già sono un filtro notevole per la maggior parte degli egiziani. E’ un grande stabilimento recintato. Noleggiamo una squallida baracchetta in plastica. Dentro c’è un lettino e un bagnetto. L’igiene è un sogno lontano però la baracchetta dispone di aria condizionata a temperatura polare!
Solo in questo tipo di resort gli occidentali possono bagnarsi o stare in spiaggia senza rischiare tanti problemi. Altrove sarebbe un tantino complicato mettersi chiappe all’aria.
Voi donne, nelle spiagge libere egiziane sareste così matte da indossare un Costume da bagno??
Ah, ah, ah, ah!
Giulia e Laura mi hanno raccontato che in altri posti le persone sono state invitate a rivestirsi. Nelle spiagge libere e popolari gli uomini, talvolta, hanno costumi lunghi come da noi negli anni ’20 o giù di lì. Le proibizioni sono però più marcate per le donne.
Entriamo in acqua.
E’ caldissima! Una goduria.
Il mare è bellissimo e sbavo letteralmente all’idea che tornerò regolarmente qui a fare il bagno anche fino a Novembre.
C’è la barriera corallina, centinaia di pesci colorati. Don Michum mi spiega come fare per avvicinarli e vederli meglio. Basta un pezzetto di pane e subito ci sarebbe una cena di pesce per 20 persone. Poi cavallucci marini, conchiglioni più o meno giganti.
Don Bernardo mi racconta di aver cavalcato una tartaruga di mezzo metro e di aver avvicinato, con relativa facilità anche i Delfini.
Un sogno.
Un’altra cosa che abbonda sono le meduse.
Piccole e infide, non appena le scorgiamo partiamo come siluri impazziti per il timore di essere punti e urticati.
Don Michum, nel suo proto- italiano del XII secolo, molto cantato e privo di connessioni grammaticali, mi spiega come distinguere le meduse buone da quelle urticanti.
Io non ci capisco niente. Poi me ne mette una in mano.
Mi fa un discorso sui colori. Quelle azzurre e quelle bianche… “quelle azzurre sono innocue?” – chiedo io incautamente – sì certo, ma bisogna che siano piccole; se sono azzurre e grandi….
Il Don egiziano mi ripete tutto da capo. Adesso ho capito!
Avanzo verso riva. Sono stato tanto in acqua e sono stanchetto.
Davanti a me c’è un’altra medusetta di colore azzurro elettrico argenteo.
E’ bellissima e delicata.
La tiri fuori dall’acqua solo per un attimo, per vederla meglio. Non oserei mai fare come tanti che le lanciano a riva. Appena la rimetti dentro… subito ricomincia a muoversi con una delicatezza commovente… sembra che danzi con i suoni del mare.
Strane creature.

A metà giornata il “resort” mette a disposizione un ristorante dove mangiamo molto bene.
E’ interessantissimo vedere la commistione di famigliole che si trovano in questo luogo.
Ci sono nuclei familiari “evoluti” all’Europea. Lei è ossigenata e truccatissima, un po’ volgare. Marito ciccione-baffonero un po’ annoiato.
La famiglia “prolet” egiziana invece è molto più caratteristica. Bambini, numerosi, ronzanti attorno alla mamma invelata; poi ci sono i figli più grandi, adolescenti maschi spesso con look abbastanza tamarro, capello impomatato e camiciole giovanili alla moda; le sorelle maggiori sono invelate come la mamma. Entrambe le figliolanze, sia maschili che femminili dispongono in ugual misura di sobri cellulari grandi come racchette da ping ping con sobrie sonerie mediorientali di gusto assai discutibile.

Ci fermiamo per salutare un amico che ha passato la domenica nella spiaggia vicina. Quella libera, dove vigono le ferree regole della pudica morale islamica.
Intravedo delle bagnanti vestite da capo a piedi. In acqua con velo e i jeans!
Fa comunque meno impressione il bagnante-burkizzato: se non altro sta al fresco.
Fa molta più impressione (e fa molto pensare) quella tizia che “prende il sole” sulla spiaggia completamente fasciata di un lububre vestito nero. Però ha un cappello in testa.

Ecco a mio parere la vittoria dell’Occidente e dei suoi costumi – cioè la prova matematica che il “peggio” del nostro mondo si sta insinuando in ogni angolo del pianeta - si misura proprio a partire da questa immagine che ne è un po’ il simbolo: la donna in-burkata che prende il sole.
Se già è inquietante chiedersi cosa spinga milioni di persone (in tutto il nostro mondo) a stare ore e ore a prendere il sole sulle spiagge; vittoria dell’assurdo, dal momento che il nostro culto del salutismo edonistico fa a botte con i danni per la salute, ormai evidenti e conclamati, dell’eccessiva esposizione solare; a maggior ragione inquietante (e surreale) è chiedersi cosa spinga una donna stare sotto il sole COMPLETAMENTE occultata da un lugubre velo nero!
Che senso ha?
Lo “stare in spiaggia” è una cosa che si è affermata da noi a partire dagli anni ’20. Dicono (e probabilmente è vero) che la cosa si impose, come fatto sociale e di costume, quando la mitica Coco Chanel apparve in società con la pelle abbronzata. Cosa disdicevole e ancora molto proletaria a quei tempi. Da quel momento in poi il culto dello “spiaggismo” dilagò favorito anche da una nuova società industriale in cui operai e impiegati disponevano, per la prima volta, di tempo libero e di ferie. Da noi i ceti più ricchi cominciarono a frequentare i “bagni estivi”, sfidando lo stupore della maggioranza che ancora non capiva il senso di questo inutile rito.
Quando poi il culto divenne di massa, allora nessuno si stupì più di una cosa così strana come lo stare immobili sotto il sole. Anzi oggi passa per snob chi la pensa al contrario.

Alle 17 ripartiamo verso la metropoli.
Prima di partire c’è un attimo di parapiglia.
Arrivano i delfini.
Sono almeno 9 o 10 e sono vicinissimi alla riva. Si direbbe che si siano avvicinati per guardare meglio quegli strani animali bipedi vicino alla riva.
Nel capanno sotto il quale ci troviamo regna un’eccitazione generale.
E’ un coro di…. “HAI VISTO? CHE TI DICEVO? A QUEST’ORA SI VEDONO SEMPRE, CHE SPETTACOLO! CHE ANIMALI AFFASCINANTI I DELFINI …COSI’ VICINI !!”.

I delfini cominciano a sfilare via. Si immergono veloci per l’ultima volta e poi via chissà dove.
In cuor mio immagino che ogni delfino dica all’altro che gli nuota accanto:
“HAI VISTO? CHE TI DICEVO? A QUEST’ORA SI VEDONO SEMPRE, CHE SPETTACOLO! CHE ANIMALI AFFASCINANTI GLI UOMINI …COSI’ VICINI !!”.


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07 agosto, 2006

MICHELE


Non e'accaduto al Cairo.
E' accaduto li' da voi in Italia.
E' caduto dal cielo il mio secondo meraviglioso nipotino.
Non posso ne' voglio aggiungere altro perche' sono rimasto senza parole.
Ciao Michele!

01 agosto, 2006

Awladi (I miei ragazzi)

La seconda settimana è stato un massacro. Come la prima.
Alla fine di ogni lezione sono assolutamente distrutto. La voce è stanca e anche le gambe perché corro nell’aula per quattro ore di seguito come una cavalletta; rimprovero i ragazzi che si alzano in piedi; scrivo mille volte la stessa parola alla lavagna, sui banchi, sui quaderni..
Meno male che non sono l’unico.
Quando vado in mensa per il pranzo, alla fine di ogni lezione, noto che siamo tutti un po’ pallidi e con lo sguardo nel vuoto. Segno che la lezione è veramente pesante per tutti.
Non si contano i KEFE’IAAAAAAA !!! (bastaaaaaa!!) urlati a pieni polmoni, per farli stare zitti. Non so come siano gli adolescenti italiani.
Questi sono dei casinisti ipercinetici e terribili. Ne ammazzerei volentieri qualcuno. In più sono degli attori nati, dei furbi irriducibili; negherebbero l’evidenza anche se vengono inchiodati da molti testimoni.
Però ci divertiamo. Ridiamo spesso di gusto. Io li prendo in giro o imito la loro goffa pronuncia per spronarli a pronunciare meglio i suoni della nostra lingua. Dal canto loro, mi sfottono quando oso pronunciare una parola in arabo.
Pero’ veramente difficile coinvolgerli.
Fa un caldo forte e aprire le finestre per fare passare l’aria è ancora peggio. Il traffico sulla Abd el Kader Taha è così forte e caotico da coprire ogni voce.
Poi è difficile spiegare certi concetti. Provateci voi a spiegare la differenza tra "è" e "sono" a degli arabi! In arabo non esiste il verbo essere!!! E in che modo glielo spiego, dal momento che non possiamo comunicare? A grugniti, come al solito. Poi qualcuno sa l’inglese e traduce per tutti.
Quello dell’Inglese è un altro punctum dolens. In effetti farebbe comodo, talvolta, comunicare con quella lingua. TUTTI, a parole, sanno dire "I speak English". Ecco bravi; però al 99% si fermano lì e non sanno dire altro.

Qualunque cosa va spiegata con un grande dispendio di fantasia.
Dire che il cellulare deve essere spento, che non bisogna chiamare o ricevere telefonate… potrei fare un disegnetto alla lavagna ma preferisco fare una scenetta.
Insceno un alunno maleducato che interrompe la lezione per telefonare. Mi siedo con loro su un banco vuoto della classe. Fingo di ascoltare la lezione e poi "driiiin" simulo con la voce il trillo di un telefono. "MMAMMMA!" urlo all’apparecchio, poi li guardo annuendo ed indicando il cellulare con l’indice: "E’ MAMMA!".
E loro giù a ridere come matti.
Poi rubo una merendina ad uno di loro, la scarto e molto platealmente la mangio e fingo di partecipare alla lezione. Scaglio la carta a terra. Fingo anche di sputare, a terra ovviamente.
LORO LO FANNO. Magari fuori della finestra, ma lo fanno.
In quei casi è difficile Reagire perché bisogna avere la delicatezza di intervenire senza offenderli. A loro magari pare naturale!
Imporre le regole: questi sono gli ordini tassativi dei Salesiani.
Comunque, man mano che passano i giorni, le tessere fondamentali del mosaico linguistico trovano il loro posto e comincio (comiciamo) a dire le prime frasi. "Quando", "adesso", "prima", "dopo", "se", "ma", "forse", "silenzio", "aspettate", "scrivete"… 15 giorni fa, all’inizio del corso non disponevo di queste parole. Non ricordo neanche come facessi a comunicare!.
Il problema più grande è la disciplina. L’ho già detto.
Anche se ho scoperto che sono in grado di farmi rispettare, la lezione è un tour de force fisico e psichico.
Ho scoperto che ho fatto un grosso errore. Non si può essere simpaticoni con una classe di terroristi come la mia. Solo severi e accigliati per tutto il tempo della lezione.
Con gli adolescenti credo che non ci siano vie di mezzo. Se gli dai un unghia si prendono tutto il resto.
Questa settimana, ahimè, sono stato costretto a prendere rimedi estremi e un po’ mi è dispiaciuto.
P. e M. e P. H, i Tre dell’Ave Maria,. sono stati spediti da me nello studio di Don Renzo (il capo dell’Istituto) in punizione. Sono tutti cristiani. In questo hanno ragione le voci di corridoio: i cristiani sono gli alunni peggiori. Confermo. Sarà che si sentono a casa loro, tant’è che rompono molto di più.
Il giorno successivo i ragazzini sono tornati scortati dai rispettivi genitori per una lavata di capo.
Quello che è incredibile è la loro faccia di bronzo: hanno spudoratamente negato di aver mai aperto bocca anche una sola volta, dopo 15 giorni di puro e assoluto casino. E i loro genitori a difenderli!
"MIN? ANA?", Chi? Io? Mi ha detto P. e intanto sua mamma mi inseguiva per il cortile cercando di farmi cambiare idea. L’avrei strangolato, lui e la sua faccia di…
Ad altri insegnanti è andata peggio di me. Ne ho visto qualcuno alle prese con mamme musulmane, tostissime e decisissime, dall’interno del loro burka, a difendere i loro criminali pargoletti.
Per darvi un’idea di quanto siano delinquenti i miei alunni (anche rispetto alle altre classi, nove in tutto) basti solo questo particolare che racconterò subito.
E’ una cosa tipicissima (ma mi avevano già avvertito) da parte degli studenti egiziani, invitare i propri professori italiani in qualche "club". Così, per cercare di stabilire una sorta di complicità con i prof., per cercare di farseli amici.
Ovviamente potete immaginare di cosa si tratti.
I soliti localuzzi squallidi (di solito nelle vicinanze delle Piramidi), con donnine più o meno nude.
Solo che, piccolo ma non trascurabile particolare, questo doveva partire come proposta degli alunni più grandi; ad esempio dagli studenti del quinto anno (quando comincerà l’anno scolastico).
E invece no. I miei piccoli mostri, dei 14enni, mi hanno già invitato!!!
Il "club!", el-Nadi, (come dicono loro)… addirittura mi avevano già fissato l’ora e il giorno, con l’arroganza tipica di chi sa che non riceverà un rifiuto.

Comunque devo ammettere che sono svegli. Provate voi ad imparare 50/60 parole di arabo alla settimana! Infatti questo è il loro ritmo di apprendimento.
Al giovedì c’è sempre il film. Proiezione del "Il re leone" e, la settimana dopo, "Madagascar". Molto belli. Commoventi e divertentissimi. Intravedo nel buio della sala i visetti commossi dei miei piccoli mostri… ops! … alunni.
I film sono in italiano ma la storia si seguirebbe benissimo anche se fosse in Tibetano. Non mancano le proteste: "Can’t understand!" Mi dice uno, un po’ saputello. Come faccio a spiegargli che non ha importanza; e che così intanto acquista familiarità con le sonorità del nostro meraviglioso idioma e che la storia si segue facilmente e che… varremengo! …opto per un calcio nel didietro e lo spedisco dentro il cinema.
Tutti poi insistono per chiedermi il numero di telefono: "Prof. Ivano! Low samaht, Raqmak al Tilifun!" (professor Ivano, per favore, il tuo numero di telefono!) Delusi quando spiego loro che non posso dare a tutti il numero. Verrei chiamato continuamente. Però non demordono. Ad ogni appello, ad ogni inizio di lezione, alla fine, durante l’intervallo… mi chiedono il numero!
Uno poi pensa: "Sono ragazzini". Vero NIENTE! Tutti gli egiziani sono così. Tali e quali.
Ieri mattina, Lunedì, durante la prima lezione della terza settimana, ho scoperto che due si erano picchiati di santa ragione… durante la lezione!
Non so come sia successo. Mi giro.. sento un po’ di trambusto e… deve essere partito un diretto sul viso di un certo P.H. che, detto fra noi, meritava ben più di un pugno.
E’ il caos.. Mezza classe si alza in piedi. Chi per fare il delatore e sputtanare il "boxeur" chi per difendere il malcapitato.
Le voci si sommano le une con le altre in un crescendo di eccitazione.
E’ troppo. Mi metto a sbraitare anch’io e li faccio sedere.
Adesso c’è un silenzio di tomba.
Mando uno dei miei alunni peggiori, Omar (passa le mattinate a dormire), a chiamare il mio asso nella manica: Abdu.
Abdu arriva subito. Lui lavora nell’officina dell’Istituto. Si occupa di torni e frese.
Ovviamente è un ex-allievo, ora insegnante. Temutissimo dai ragazzini, appena entra in classe, è come se la temperatura si abbassasse di 20 gradi.
Chiamare Abdu è come chiamare l’esorcista. Basta anche solo dire il suo nome e i ragazzini merdosi tacciono all’istante.
Stavolta sono stato veramente cattivo. Ma mi ci hanno costretto. Sono stato costretto a minacciarli pesantemente.
La prossima volta che succederà qualcosa li manderò direttamente a casa. Questo, se accadesse sarebbe gravissimo, per loro e per la loro presentazione all’esame finale che si terrà il 18 agosto.
Dubito che servirà a qualcosa. Se non altro adesso sono pienamente di avere fatto un errore: sono stato troppo amichevole con loro e adesso ne pago lo scotto.
Da domani assumerò un atteggiamento prussiano fin dai primi minuti di lezione. In fila per uno. Silenzio. Alzate la mano. Silenzio.
Da domani si cambia musica. Speriamo non mi scappi da ridere.

Burg al Qahira : la torre del Cairo


Alla fine di ogni mattinata saremmo tutti troppo stanchi per andare in giro.
Troppo stanchi e troppo caldo. Al massimo, nella seconda metà del pomeriggio, ci si concede una passeggiata di un paio d’ore in posti "facili" e rilassanti.
Decidiamo di salire in cima al simbolo della grande Cairo.
Dai suoi 187 metri di altezza potremo vedere tutta la città.

La torre si trova in mezzo a Zamalik, una delle due isole sul Nilo: Zamalik è uno dei quartieri "bene" abitato dalla maggior parte degli occidentali; qui hanno sede anche le ambasciate e i consolati come anche le sedi di rappresentanza di compagnie di tutto il mondo.
Apprendo dalla guida che la torre, fu costruita dal 1957 al 1962 grazie ai finanziamenti sovietici. Ed in effetti la costruzione è una commistione "armoniosa" di motivi architettonici socialisti e faraonici. Provate a immaginare qualcosa a metà tra Ceausescu e Tutankhamon.
Non appena raggiungiamo la cima, ci vengono subito incontro, tristemente comici, un’intera squadriglia di Faraoni e Faraone. Ovviamente sono solo dei (tristissimi) figuranti che offrono una breve spiegazione in inglese delle meraviglie della torre.
Sulla sommità, nel terrazzo panoramico circolare, stanno circa una trentina di persone. Molti gli occidentali come noi. Poi c’è una comitiva di donne provenienti dal Qatar: sono tutte velate da un telo nerissimo, integrale e totale... Da cosa capisco che provengono dal Qatar?
Semplicemente perché alcune di queste portano con orgoglio, appuntato in bella evidenza sul petto, una grossa spilla metallica con questa scritta: "I LOVE QATAR !".
Non metto in dubbio che si possa amare la propria patria.
Non lo metto in dubbio anche nel caso del Qatar, che francamente farei fatica a distinguere dal puro Nulla (una penisola di sabbia e niente più). Quello che è incredibile - in queste donne - è l’ostentazione di un’identità, di una peculiarità ("Ehi, amici!, io vengo dal Qatar! Non siamo persone qualunque!!") da parte di chi NON può mostrare NE’ la propria identità, NE’ il proprio viso. Anche le mani e i piedi, ovviamente, sono preclusi ai famelici sguardi maschili…
Ammiro le piramidi, laggiù in fondo, immerse nella foschia, a 15 chilometri dal centro.
Individuo anche il quartiere dell’istituto Don Bosco a circa 4-5 chilometri di distanza.
L’orizzonte è fosco: è una giornata afosissima e l’umidità atmosferica si fonde alla cappa di smog che sovrasta la grande Cairo.
Alla sera dopo cena mi intrattengo lungamente con Don Abdu. E’ un simpaticissimo prete egiziano. Cattolico. Sta studiando a Roma per completare la sua formazione di Salesiano.
Discutiamo della situazione dei Cristiani in Egitto .
Ovviamente, cos’altro potrei fare?, concordo con lui. Solo che -e gli chiedo un parere in proposito - ho l’impressione che l’ondata crescente di fondamentalismo islamico in tutto il mondo, sia in verità un sintomo e una spia della sua profonda voglia di rinnovamento. Anche l’Islam infatti, come è già accaduto da noi occidentali, sta affrontando la sua lotta contro la modernità.
E la modernità significa, libera circolazione delle idee; liberazione della donna; valorizzazione dell’infanzia; interpretazione libera dei testi sacri; leggi laiche non legate all’arbitraria interpretazione dei testi religiosi (il Corano).
Comunque, sebbene il 90 % delle donne sia velato, presenti cioè il capo e spesso le spalle coperte da un velo; ebbene questo velo è quasi sempre vivacemente colorato; ornato di paillettes, o ricami preziosi.
Il resto del corpo è poi avvolto in magliette attillate o jeans stretti alla moda europea.
Le donne egiziane, nei limiti rigidi imposti loro dalla morale islamica, usano il proprio corpo con non minore malizia di quelle europee.
Per le più caste c’è una lunga gonna, fino alla caviglia. Anche questa però cade con sapienza sui fianchi, avvolge e valorizza il corpo e dona all’incedere una notevole grazia.
I volti sono truccatissimi. Spesso anche in modo eccessivo e volgare.
A questo punto non si capisce che senso abbia la proibizione di coprirsi la testa quando tutto il corpo con tutte le sue forme è offerto allo sguardo e all’esibizione per gli altri.
Segno che ormai il velo si è trasformato. Un tempo aveva un significato più forte: di nascondimento di una proprietà privata, quale era appunto considerata la donna.
Oggi è diventato il simbolo di un’appartenza culturale; un guscio vuoto privo di reale significato, una imposizione fine a sé stessa che fatica sempre di più a trovare un senso o una giustificazione o una coerenza in ciò che propone.
La cosa più buffa è che appena vent’anni fa, TUTTE le donne o quasi, già non portavano più il velo! Quando stava cadendo nel dimenticatoio della storia, il velo, così come molti precetti formali, sono tornati ferocemente alla ribalta.
...
Serata al Mohandiseen. Altro quartiere di lusso. Di gran lunga uno dei quartieri più famosi per i divertimenti notturni. Lungo viale con palme e negozi scintillanti.
Andiamo al "Concorde", un locale molto carino con alcuni ragazzi dell’istituto.
Io prendo un "Umm Ali". Letteralmente "la mamma di Alì", una sorta di budino al latte con biscotti vaniglia e cannella. Per fortuna è stato passato al forno! Non ci saranno i temutissimi problemi intestinali.
(A proposito di intestino. Il giorno successivo ci sarà la prima "caduta" sul campo. Giulia sta male e non fa lezione. Anche Claudio, pur non perdendo lezioni, mangia brodo e riso in bianco da tre giorni.)
Nel locale tutti gli uomini si baciano sulle guance e si abbracciano vigorosamente come se non si vedessero da anni. C’è una musica fortissima, sono infastidito. Tutti fumano la Shisha, il nome egiziano del Narghilè.
Torniamo con un taxi alla scuola.
Tragitto in taxi pericolosissimo, seppur, ahimè, nella norma!
Rischiati almeno tre o quattro scontri, speronamenti o tamponamenti. L’unico che pare non essersene accorto è l’autista. Nel fiume di macchine (la maggior parte con i fari spenti!!) che attraversano i lunghi viali della città, il nostro Caronte si insinua con perizia schumacheriana indovinando spazi impossibili. Giovanni da Pederobba è terrorizzato. A me fa ridere.
Nel mio arabo-egiziano ancora alle prime armi riesco a fare una chiaccheratina.
Spiego all’autista, sperando rallenti un po’, chi siamo e cosa facciamo al Cairo.
"Antùm mudarrisin fi-l Dun Buscu?" (voi professori del Don Bosco?), mi chiede, si stupisce piacevolmente, e ci dimezza subito la tariffa.
Mi spiega che un nipote… o qualcosa del genere (parlava troppo veloce) aveva frequentato la scuola. Mi spiega che è musulmano ma che i Cristiani sono tutti suoi amici.
Del resto… "ITALIA, BABA IOHANNA PAUL II, raghil kibir !!", urla a gran voce. Un grande uomo, "raghil kibir", un grande uomo. E fa un largo movimento delle mani per sottolineare la statura morale dell’ex papa.
Io invece le mani le uso per puntarmi contro il cruscotto, sapientemente foderato di uno schifosissimo pellicciotto sintetico, e spero che i freni di una Peugeot del 1972 funzionino ancora a dovere.